Sono da poco passate le 8 di mattina, è tempo di Fairouz. Le note delle canzoni della cantante libanese, insieme all’egiziana Umm Kulthum la più nota voce femminile del mondo arabo, paiono risuonare per le strade palestinesi, colonna sonora quotidiana delle prime ore del giorno. La tradizione è rispettata da tutti: Fairouz si ascolta al mattino. In auto, nei servis (i taxi collettivi che collegano, non senza difficoltà, la Cisgiordania), al bar, in ufficio.

L’amore per la musica in Palestina si declina in modi diversi, di certo nell’ostinazione ad ascoltare il Trio Jubran che ripropone i pezzi di Marcel Khalife (che ha messo in musica i versi del poeta nazionale palestinese Mahmoud Darwish); Unadikum, composizione del «poeta della protesta» Tawfiq Zayyad, inno della prima Intifada; o i brani della cantautrice Rim Banna, stella della sollevazione del 1987. Ma si traduce anche nell’apertura di piccoli laboratori artigianali di produzione degli strumenti musicali della tradizione e nella sperimentazione dei giovani.

RAP, HIP HOP, hard rock, pop, non c’è stile ormai che non sia affrontato dalle giovani band che si affacciano sul panorama musicale palestinese.

Tra le canzoni d’amore struggenti (di regola accompagnate da video clip strappalacrime su amori impossibili) e i brani strumentali, senza testi, che riproducono suoni antichissimi, da tempo si è aperta una nicchia: i giovani musicisti palestinesi sperimentano, mescolano stili, adattano ai tempi e ai ritmi arabi quelli di oltreoceano.

Essenzialmente l’obiettivo è politico, i testi sono politici. Ripercorrono l’obbligato percorso artistico palestinese, tracciato dai mostri sacri dell’arte.

DECLINATO IN MODI diversi, ma senza deviare: l’artista, inteso come osservatore e traduttore della società, è chiamato al suo naturale dovere. Raccontare l’occupazione, gli abusi, la perdita della terra, la diaspora; narrare Gerusalemme, i campi profughi, le prigioni. Questa è la Palestina, dopotutto.

«Sì, è questa. Ma è anche altro. La nostra musica non è nata settant’anni fa, ma secoli fa». L’amore che Tarek Abu Salameh ha verso la musica è viscerale. Ha 27 anni, è laureato al conservatorio Edward Said di Beit Sahour e suona l’oud – il liuto della tradizione araba – da anni. Compone testi e musiche, a volte le colonne sonore per spettacoli teatrali locali. Poco meno di un anno fa ha deciso di aprire una scuola di musica e qualche mese è nata Dar al Musica, la Casa della Musica.

«In realtà non si tratta di una semplice scuola. Sì, insegno anche a suonare l’oud e il pianoforte ma il mio obiettivo è un altro: reimparare ad ascoltare la musica, fornire agli studenti, giovani e adulti, gli strumenti per leggere la musica, per comprenderne l’essenza più profonda».

Ci accompagna nel monolocale che ha affittato, il piano terra di una vecchia casa nella città vecchia di Beit Sahour: le grandi pietre bianche formano un arco sul soffitto, che incornicia la piccola stanza. Un angolo cucina, un bagno e una sala con al centro un tavolino, sedie, leggii, un pianoforte, un violoncello, un paio di liuti. Al muro sono appesi quadri con i volti stilizzati dei maestri Khalife e Ziad Rahbani.

I ritratti di Marcel Khalife e Kamilya Jubran (Foto: Chiara Cruciati)
I ritratti di Marcel Khalife e Kamilya Jubran (Foto: Chiara Cruciati)

 

«LA MUSICA RIFLETTE la società, ne è il prodotto – ci spiega – Ne rappresenta l’identità. Per questo motivo ritengo assolutamente necessario tornare alla radice, all’anima del suono palestinese. Un suono che fa volare l’immaginazione. Ascolta».

Prende in mano l’oud e inizia a suonare melodie diverse: «Questo suono è così particolare, così ricco. Lo ascolti e pensi, immagini. Al contrario, oggi il mercato lo nasconde: è il capitalismo applicato alla musica, la standardizzazione del suono e l’omogenizzazione delle parole che producono un pop povero. Stesse melodie che si ripetono, testi pressoché identici in ogni canzone. Il mercato ha ucciso l’immaginazione perché, non appena ascolti una canzone di questo tipo, sai già a cosa devi pensare, cosa ti devi aspettare».

«La musica è prigioniera. E in Palestina lo è due volte: lo è delle imposizioni del mercato ma anche del senso del dovere. I musicisti, come gli artisti in generale, sentono di dover utilizzare la loro arte per raccontare l’occupazione, criticarla. Dopo ogni Intifada, tanti musicisti se ne sono andati. Chi è rimasto o chi oggi si affaccia alla musica lo fa per esprimere concetti politici. È giusto, è la nostra vita, ma questo obbligo finisce per impoverire l’arte, relegandola a servire un solo obiettivo».

Un pensiero, viene da dire, rivoluzionario che trova una sua spiegazione nelle canzoni contemporanee, gli album di band come i Dam (gruppo rap originario di Led, città palestinese nello Stato di Israele), i Typo (gruppo rock di Gaza che suona attaccato ai generatori di corrente per i continui blackout elettrici) o i Sa’aleek (band hip-hop del campo profughi di Qalandiya). Scorrere i titoli dei brani, leggerne le parole, è compiere un viaggio dentro il regime di occupazione, i suoi strumenti, la discriminazione, ma anche dentro il bisogno di dare voce alla propria narrativa e, dunque, alla propria identità.

Il gruppo musicale Dam, di Haifa
Il gruppo musicale Dam, di Haifa

 

«È VERO, CANTARE l’occupazione è il mezzo per smascherarla – continua Tarek – Ma io esprimo la mia identità ogni volta che suono. Lo faccio suonando le melodie tradizionali e rivisitandole, sperimentando nuove sonorità, forzando il mio oud a reinventare la tradizione. Per questo ho aperto Dar al Musica: saper ascoltare la musica significa farne uno strumento di resistenza culturale. Non voglio perdere la mia storia perché costretto ad affossarmi su un unico tema. L’occupazione è temporanea, la musica no e mantenere viva la sua identità palestinese è per me già un atto politico. Liberare la musica è resistenza, perché è l’occupazione che l’ha fatta prigioniera».

Arriva un giovane di Betlemme per la sua lezione. Accorda lo strumento e inizia a suonare il compito per oggi: «I prezzi sono bassi – ci dice Tarek – perché tutti possano frequentare. I corsi sono di diverso tipo, alcuni sono dedicati ad artisti che per lavoro hanno a che fare con la musica, cineasti, attori, ballerini, a cui insegniamo a leggere tempi, spazi e silenzi così da poterli adattare alla loro attività. Analizziamo i vari elementi che compongono un pezzo, melodia, strumento, parole e anche i silenzi, per entrare nell’architettura della composizione. Al ballerino serve per armonizzare il corpo alla musica, al regista o all’attore per scegliere la melodia che esalti al massimo l’immagine».

SUL MURO UNA PICCOLA libreria ospita libri e dischi, è l’embrione di una biblioteca musicale a cui Dar al Musica sta lavorando: la raccolta di testi, film, album, documenti visivi e audio sulla musica palestinese, il primo archivio «nazionale» di questo tipo.

La scuola collabora anche con due piccoli studi di registrazione dove i musicisti che ruotano intorno alla Casa della Musica registrano insieme, spesso improvvisando, jam session sperimentali. «Facciamo da soli, senza compagnie di produzione. Per liberarti, dopotutto, non puoi che essere produttore di te stesso»