Quando esce, il suo nome è già noto ed è associato a due saggi che hanno terremotato il paludato mondo delle cosiddette scienze sociali statunitensi. Negli anni Cinquanta, Charles Wright Mills aveva, infatti, messo sotto accusa la formazione e i meccanismi di selezione delle élite al potere e l’ascesa dei «colletti bianchi», quel ceto medio che occupava il centro della scena sociale, spodestando dal podio il self made man, figura mitica attraverso la quale gli Stati Uniti erano presentati il regno delle infinite possibilità di successo. Lo scandalo delle sue opere veniva dal fatto che Wright Mills, in pieno maccartismo, non esitava a citare Karl Marx e a sostenere che negli scritti dell’economista marxista Paul Sweezy ci sono molti elementi utili a differenza di quanto invece si poteva e si può trovare trovare negli scritti degli eredi del liberale John Stuart Mill. Alle accuse di essere un comunista mimetico, Wright Mills rispondeva sarcasticamente che se interrogato non avrebbe avuto remore a definirsi un wobbly, evocando la breve e tuttavia importante esperienza di sindacalismo rivoluzionario che nei primi venti anni del Novecento, prima cioè che intervenisse la politica di annientamento dell’Iww (Industrial workers of world), aveva espresso le posizioni politiche più radicali nella sfera pubblica statunitense. E altrettanto provocatoriamente da lì a pochi anni scriverà una serie di ritratti dei «marxisti» più significativi del Novecento, mentre nel 1960 sosterrà, con un lungo e discusso saggio, la rivoluzione cubana, considerata una possibile alternativa sia al capitalismo che al socialismo di stato di stampo sovietico.
I saggi sulle élite e sui colletti bianchi avevano quindi trasformato un promettente studioso in una figura centrale nella sociologia statunitense. La pubblicazione de L’immaginazione sociologica (ora riproposta dal Saggiatore, pp. 244, euro 13) nel 1959 può quindi essere considerata la parte conclusiva del trittico iniziato con il testo sulle élite. Con questo libro, Wright Mills si dà un obiettivo ambizioso e per raggiungerlo sa che deve misurarsi non solo con «scuole di pensiero» che fanno il cattivo e buon tempo nelle facoltà statunitensi, ma anche con il potere sociale che esprimono grazie al fatto che sono diventate le ancelle del potere economico e politico.
Da una parte c’è il funzionalismo di Talcott Parson – definito ironicamente da Wright Mills la «Grande Teorizzazione» -, dall’altra l’empirismo radicale di Paul Lazarsfeld. Il primo riteneva che le scienze sociali dovessero sviluppare modelli di interpretazioni della realtà astraendosi dai rapporti di forza presenti nella società capitaliste: modelli che dovevano eliminare ogni specificità storica, ogni differenza esistente tra realtà segnate da un alto tasso di eterogeneità per poi essere applicati indifferentemente sia a società capitaliste che quelle stigmatizzate come «sottosviluppate».
Verso la «Grande teorizzazione» Wight Mills usa parole sprezzanti verso lo stile criptico che la contraddistingue, presentando pagine di esilarante lettura laddove propone involuti brani tratti dai libri di Parson per poi sintetizzarli in poche righe. L’oscurità della «Grande teorizzazione» è dunque da considerare un ordine del discorso, direbbe il diligente ammiratore di Michel Foucault, che legittima il potere costituito.

Tra biografia e storia

L’altro bersaglio polemico è l’empirismo radicale Lazarsfeld, il sociologo austriaco coautore di uno dei più importanti analisi sulla disoccupazione – I disoccupati di Marienthal – e trasferitosi negli Stati Uniti nel 1933, diventando uno delle figure di primo piano della Columbia University (la stessa dove insegnava Wright Mills) e della sociologia americana. Rispetto alla centralità dei fatti e l’irrilevanza della teoria prospettate da Lazarsfeld, Wright Mills sostiene invece che l’«immaginazione sociologica» è indispensabile, perché consente di cogliere sia le tensioni, i sentimenti individuali, mettendoli però in relazione con lo sviluppo storico e le relazioni allargate che accompagnano il suo stare in società: «l’immaginazione sociologica – scrive Wright Mills – ci permette di afferrare la biografia e storia e il loro mutuo rapporto nell’ambito della società». Inoltre, per relazioni sociali lo studioso americano intende anche il ruolo che hanno le divisioni in classe nello vita individuale, la «composizione sociale» delle élite, nonché il tipo di lavoro che i singoli svolgono. Anche in questo caso, l’ironia e il sarcasmo la fanno da padrone, in particolare modo quando il lettore è invitato a svolgere un esperimento mentale per cercare come sia possibile definire la totalità di una realtà sociale, elevando a modello generale ciò che accade in una piccola e provinciale cittadina, presentando come un aggregato statistico di comportamenti, ignorandone storia, stratificazione sociale e «razziale», flussi migratori, il ruolo svolto dalla religione come anche dell’amministrazione politica locale e da quella federale. In altri termini, le «scienze sociali» devono operare affinché il «presente si presenti come storia», evocando il titolo di un testo che Paul Sweezy scrisse per contrastare la normalizzazione della produzione culturale statunitense dopo l’impegno pubblico degli intellettuali a favore delle riforme sociali e politiche proposte durante il New Deal.
La centralità assegnata alla storia fa sì che Wright Mills, e siamo nel 1959, parli espressamente dell’avvento del postmoderno – la «Quarta epoca» – visto che ogni formazione sociale prende forma, si sviluppa per poi declinare, lasciando il posto ad un’altra formazione sociale. Da questo punto di vista emerge una inaspettata «attualità» del suo invito a contestualizzare storicamente la realtà sociale, senza nessuna concessione a un relativismo e a un generico pluralismo teorico. Wright Mills è uno studioso del capitalismo, ne vuole cogliere le invarianti ma anche le discontinuità. Ma emerge anche la sua inattualità, laddove considera l’«ethos burocratico» come una caratteristica del postmoderno prossimo a venire, vista invece la centralità che l’individuo proprietario ha assunto nelle società contemporanee. Non una società abitata da «robot docili» affiliati a una organizzazione vincolata a un ethos burocratico, bensì uomini e donne che vedono nella rescissione dei suoi legami sociali il preludio a una libertà radicale. Va però detto che L’immaginazione sociologica, nella sua inattualità, è pur sempre un godibile antidoto verso la retorica retorica individualista del neoliberismo, laddove ne svela il carattere ideologico, performativo dei rapporti sociali.

Autonomie universitarie

È su questo crinale che il volume rivela infine sentieri di ricerca che andrebbero ripresi. La denuncia del ruolo delle «scienze sociali» come discipline volte a costruire il consenso al potere costituito, la denuncia del carattere ottundente della parcellizzazione del sapere che caratterizzava e caratterizza la produzione culturale hanno infatti una forza persuasiva in controtendenza rispetto a quando accade nelle facoltà universitarie al di là e al di qua dell’Atlantico, dove la tendenza a definire «oggettivi» criteri di valutazione e a misurare la qualità della ricerca scientifica e sociale in base al loro utilizzo economico la fanno da padrone. Interessante sono quindi le pagine sull’autonomia dell’università dai poteri economici e politici: elemento tutt’ora indispensabile per garantire l’indipendenza dello studioso e per arginare la tendenza a misurare in base ai profitti derivanti, direttamente come proprietà intellettuale o indirettamente come innovazione, dalla produzione culturale.
Dunque un libro che andrebbe riletto non per cercare lumi sul presente, ma per acquisire un’attitudine critica rispetto la realtà capitalistica, facendo così i conti con le trasformazione che l’hanno caratterizzato. Non per rivendicare una immacolata autonomia dello studioso, ma per sviluppare un’attitudine woobly, partigiana nella produzione culturale. L’unica che consente davvero di conoscere la realtà.