Cgil, uno statuto dei lavoratori per una nuova cittadinanza sociale
Corso Italia Il sindacato ha approvato una carta dei diritti universali del lavoro e sembra finalmente aprirsi alle tutele universali per tutti i dipendenti e gli indipendenti. I ritardi sindacali, la poca consapevolezza dei cambiamenti del lavoro da parte della sinistra: oggi siamo ancora in tempo per inaugurare una nuova stagione del diritto del lavoro
Corso Italia Il sindacato ha approvato una carta dei diritti universali del lavoro e sembra finalmente aprirsi alle tutele universali per tutti i dipendenti e gli indipendenti. I ritardi sindacali, la poca consapevolezza dei cambiamenti del lavoro da parte della sinistra: oggi siamo ancora in tempo per inaugurare una nuova stagione del diritto del lavoro
Il Comitato direttivo nazionale della Cgil ha approvato la Carta dei diritti universali del Lavoro, definito anche Nuovo statuto delle lavoratrici e dei lavoratori, un documento che sarà sottoposto a una consultazione. Nel testo, nato dalla discussione che ha coinvolto i vertici del sindacato, si intuisce l’ambizione di scrivere un «nuovo» diritto del lavoro come risposta alle famigerate «riforme» dell’ultimo ventennio e il definitivo smantellamento dello Statuto dei lavoratori del 1970.
Dagli anni Novanta del «Pacchetto Treu» e dell’introduzione della Gestione Separata Inps, ai professorali e avventati (si pensi agli «esodati») interventi di Elsa Fornero, fino al fiume di decreti delegati del Jobs Act dell’attuale, iperattivo, ministro del lavoro Poletti. Si aggiunga che lo scorso ottobre il Governo Renzi ha presentato una bozza di collegato lavoro che prevede «misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato a tempo indeterminato».
Con una certa dose di amarezza verrebbe da osservare che i preziosi intenti delle rappresentanze sindacali confederali legate alla riscrittura dei diritti per le diverse forme dei lavori arrivano fuori tempo massimo.
Come in un’eterna ripetizione si reagisce al campanello dei presunti «riformatori» dall’alto con un impegno che avrebbe dovuto essere usato vent’anni fa al fine di garantire la sicurezza sociale che è stata nel frattempo e definitivamente barattata con precarietà. Altro che flexicurity. A quel tempo di preferì questo baratto in nome del moloch delle relazioni tra sindacati-imprenditori-governo, lo stesso che genera incubi nelle vite delle persone: l’evanescente, e sempre più improbabile, creazione di nuova occupazione. Senza che neanche sia buona e degna, questa occupazione che si insegue continuamente e mai si trova.
Ma qui siamo: molta disoccupazione e altrettanta sottoccupazione, lavoro povero e poveri al lavoro, minori garanzie per tutti gli occupati che sono tutti diventati precari “a tutele crescenti”. Dinanzi a questo deserto di diritti si prova a recuperare il tempo perduto. Con la certezza di giocare sempre di rimessa e sempre in ritardo.
Perché questo è il vero problema intorno al quale ruota l’afasia sindacale dell’ultimo trentennio: non riuscire a interpretare il cambiamento proponendo un’alternativa credibile per la trasformazione sociale delle tutele in senso universalistico. Ieri, gli anni Ottanta, quando si avviava il post-fordismo all’italiana dei lavoratori e lavoratrici autonome di seconda generazione. Oggi, dinanzi ai repentini mutamenti delle nuove tecnologie digitali, con il «lavoro agile», smart work, travail agile, nell’epoca della «uberizzazione» della prestazione lavorativa e delle economie collaborative della condivisione, al momento ancora ampiamente gestite dall’alto.
Si può semplicemente pensare che questa sia «la volta buona»? Non per provare a spostare le lancette dell’orologio al 1970, riscrivendo un nuovo Statuto dei lavoratori subordinati, maschi, padri di famiglia, bianchi, impiegati a tempo indeterminato, com’è stata l’occupazione in questo paese «nazionale e sotto padrone» (lo ha scritto su Il Manifesto Marco Bascetta il 12 dicembre). Il lavoro autonomo e indipendente è sempre stato trattato come un’eccezione.
Oggi bisogna aprire definitivamente il campo a una universalizzazione delle tutele, in un sistema di Welfare che promuova l’autodeterminazione individuale, l’indipendenza delle attività lavorative, la cooperazione sociale tra diversi e la solidarietà collettiva tra i molti. Anche perché è ormai difficile tracciare un solco che separi le diverse aree grigie tra lavori subordinati, autonomi e indipendenti. La vita è stata messa al lavoro e si produce ricchezza per altri anche quando siamo disoccupati, in un mondo dove le prime sette imprese globali sono quelle dell’economia immateriale di Internet. Ai loro profitti noi tutti contribuiamo ogni giorno.
La proposta della Cgil sembra finalmente aprirsi al ripensamento della cittadinanza sociale per tutti i dipendenti e gli indipendenti. Accetta il piano di universalizzazione delle tutele. Siamo ancora in tempo per inaugurare una nuova stagione del diritto del lavoro.
* autore di Libertà e lavoro dopo il Jobs Act (DeriveApprodi, con Giuseppe Bronzini) e Il Quinto stato (con Roberto Ciccarelli)
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