«L’intesa sul fondo europeo per la ripresa che destinerà duecentonove miliardi di euro sui 750 complessivi al nostro paese è molto positiva perché riconosce l’idea di una politica economica comune e la solidarietà tra gli stati. Nella crisi finanziaria del 2008 questo non era accaduto. Ora che abbiamo avuto la sicurezza delle risorse dovremo muoverci con un pensiero lungo» afferma Maria Cecilia Guerra, sottosegretaria al Ministero dell’economia e delle finanze

Non crede che sia stato decisivo l’asse franco-tedesco?
È vero, ma al nostro paese è stato riconosciuto l’impegno fortissimo che ha permesso di arrivare a questo risultato. Ricordo che quando il presidente del Consiglio Conte ha sottoscritto una lettera insieme ad altri otto governi che prefiguravano questa intesa,ì Francia e Germania erano su posizioni diverse.

Sul «freno d’emergenza» alle decisioni sulle riforme è stato escluso il veto di un singolo governo e previsto il ricorso al Consiglio Europeo. È stato eliminato il rischio dei veti?
Sì, il testo è chiaro. È stato rafforzato il monitoraggio, ma non c’è alcun diritto di veto. Ci si può appellare al Consiglio in presenza di gravissimi scostamenti rispetto al programma in cui un paese è impegnato. Il Consiglio farà una verifica, la procedura resta in capo alla Commissione. Nessun paese deve avere paura di questi strumenti. È interesse di tutti spendere i fondi in maniera adeguata e non in interventi molecolari e frammentari.

Nell’accordo è previsto l’anticipo del 10% delle risorse. Cosa significa?
Potremo usarlo già a partire dalla prossima legge di bilancio e considereremo anche le spese sostenute a partire da febbraio di quest’anno. Il grosso delle risorse sarà stanziato nel prossimo biennio. Questo significa che non aspetteremo un tempo troppo lungo.

Ora che il fondi europei sono tutti sul tavolo come si orienterà il governo sui 37 miliardi del Mes?
Abbiamo molti strumenti finanziari, ora spendiamoli bene. E ricordiamo che nessuno regala soldi e il debito va ripagato. I 127 miliardi di prestiti del Recovery Fund saranno più vantaggiosi perché andranno restituiti in un trentennio, quelli del Mes in un decennio. Quest’ultimo non è uno strumento della Commissione Ue, mentre il Recovery fund lo è. Penso che sia sbagliato ritenere che il Mes porti a una situazione di minore libertà, questi dubbi sono stati fugati dal modo in cui è stato ripensato.

L’Italia non brilla per capacità di investire le risorse europee. In che modo affronterete il problema?
Ci sono regioni che hanno sempre investito le risorse nei tempi richiesti, altre che sono in ritardo. C’è una situazione a macchia di leopardo. Ci sarà un forte presidio dello Stato centrale nella pianificazione e nel monitoraggio degli investimenti. L’intesa europea prevede che le risorse dovranno essere impiegate nei tempi dovuti e in maniera efficace. Le difficoltà saranno grandi ma l’amministrazione condurrà un’azione coordinata con tutte le sue ramificazioni.Faremo una prima sperimentazione con il decreto semplificazione che andrà monitorato. Siamo un paese in cui bisogna fare molta attenzione alle infiltrazioni della criminalità organizzata. Credo che in questo caso abbiamo la possibilità di governare queste risorse con grande profitto.

Il Recovery Plan punterà alla transizione ecologica. Taglierete i 19 miliardi di sussidi dannosi per l’ambiente?
Rispetto a questa considerazione, e a un uso più mirato dei prelievi, sarà rilevante la riforma fiscale che stiamo iniziando a discutere. Nella questioneo fiscale oggi esiste una questione ecologica di grande importanza. Dovremo considerarla in maniera sistematica, e non episodica come è stato fatto l’anno scorso. La transizione ecologica deve essere equa perché, come quella tecnologica, non ha effetti neutrali e indolori sui lavoratori. Oltre a fare del bene all’ambiente, la riconversione industriale può lasciare indietro molte persone. Non possiamo permetterlo.

In che modo affronterete la digitalizzazione a cui è stata vincolata una parte delle risorse del piano europeo?
Non va pensata solo a misura delle imprese. Dobbiamo affrontare il problema del digital divide a partire dalle aree interne che rischiano di essere tagliate fuori senza un investimento pubblico che riconosca la cittadinanza digitale.

Nel piano Ue si parla di diminuire le disuguaglianze sociali e territoriali. Partirete dalla riforma degli ammortizzatori sociali?
È una riforma importante, come abbiamo visto in questi mesi quando l’assenza di tutele universali ha comportato enormi difficoltà nel raggiungere tutti i segmenti frammentati del lavoro. Va pensata una tutela generale per il lavoro autonomo che si trova in una zona grigia tra il professionista e il dipendente. Ma non è solo con gli ammortizzatori che si rimedia alle disuguaglianze sul lavoro. I finti stage, i part time involontari, i contratti stipulati da sindacati non rappresentativi non garantiscono un salario, né tutele sufficienti. Per questo sono contraria all’idea che nella crisi si deve aumentare il precariato con i voucher.

Nel corso delle trattative sul Recovery Fund è stata tirata in ballo la “quota 100”. L’anno prossimo si chiuderà la finestra. Qual è il suo bilancio e in che modo il governo intende intervenire sulle pensioni?
È stata una misura emergenziale in un contesto in cui sarebbe stato meglio procedere con proposte di tipo strutturale. Mi ha colpito che, oltre ai dipendenti pubblici, nel lavoro privato hanno fatto richiesta persone con un reddito basso o nullo. Il problema non è l’anticipo della pensione, ma l’età prossima alla pensione di soggetti esclusi dal mercato che non hanno la possibilità di trovare un’altra occupazione. Dovremo accompagnare queste persone alla pensione, oltre a lavorare con un orario ridotto, ad esempio. E’ un problema che dovremo affrontare nel medio periodo. Accadrà sempre più spesso con la trasformazione tecnologica. Sulle pensioni il governo è intenzionato a fare ripartire il confronto con le parti sociali. Dovremo individuare con maggiore scientificità le categorie di persone interessate, a partire da coloro che hanno fatto lavori usuranti. Dovremo anche considerare un problema posto da un sistema previdenziale sempre più contributivo. A chi ha carriere lavorative intermittenti perché si è formato, è precario, è disoccupato dovrebbe essere riconosciuta la tutela sociale. È una sfida enorme. Anche questo passaggio va affrontato con un pensiero lungo.