Quando l’11 luglio del 1890, dopo aver attraversato la Siberia in un viaggio estenuante che durò esattamente ottantuno giorni, Cechov intravide dal bordo della nave la sua meta finale, l’isola di Sachalin gli si presentò avvolta dalla fiamme. Il bagliore infernale irradiato da quella terra situata oltre le colonne d’Ercole è il preludio più adeguato per introdurre il lettore in un luogo, che l’ottusa politica di colonizzazione interna stava trasformando in un gigantesco bagno penale. A Cechov sarebbe occorso qualche anno per rielaborare la mole di impressioni e testimonianze collezionate durante la permanenza di tre mesi in quel posto realissimo e inverosimile: per rielaborarla e farne un libro contundente, L’isola di Sachalin, appunto, una sobria, pacata, implacabile denuncia della disumanità del Leviatano russo, nonché del fallimento di un intero sistema istituzionale improntato all’ingiustizia e alla corruzione. Ora la Adelphi rende omaggio a quest’opera, mai patetica e però assillante, apparsa per la prima volta in Italia già nel 1905, offrendone una nuova, impeccabile traduzione curata da Valentina Parisi (pp. 457, euro 22,00) .

Qualunque sia stato il motivo contingente che spinse il trentenne medico e scrittore, ormai famoso dopo una lunga gavetta nel sottobosco dei giornaletti satirici, a intraprendere il viaggio a Sachalin, qualche ragione essenziale l’aveva già seminata nel racconto pubblicato subito prima della partenza,«Una storia noiosa». In quelle pagine dominano tonalità emotive affini al libro dell’Ecclesiaste: spaventosa è la vanità una vita non riscattata da alcuna «idea generale», ovvero da un plausibile surrogato del «dio dell’uomo vivente». Insomma: vana è una esistenza che eviti accuratamente di imbattersi in entità come il penitenziario di Sachalin.

Poiché la critica progressista, pur riconoscendo l’indubbio talento letterario di Cechov, si ostinava a negargli quella consistenza etica che era indispensabile, in Russia, a decretare la grandezza di uno scrittore, è ipotizzabile che una causa così ingrata come lo studio delle condizioni di vita dei forzati e degli esiliati di Sachalin fosse necessaria a Cechov per reagìre sia alla sua impasse esistenziale sia alla tenacia dei pregiudizi che investivano la sua statura morale.

Sul sistema penitenziario russo aveva già attirato l’attenzione il giornalista americano George Kennan, che a metà degli anni ottanta visitò le galere siberiane e ruppe l’omertà che ne occultava le condizioni. Naturalmente, la decisione di Cechov di recarsi a Sachalin ebbe un’ampia risonanza sulla stampa, e il suo editore (e amico), il magnate Suvorin, che aveva provato a dissuaderlo da quell’impresa, si guardò bene poi dal pubblicarne il resoconto.

Una volta giunto a destinazione, Cechov, che aveva sollecitato invano un mandato ufficiale per visitare i penitenziari, dovette ricorrere a un espediente. Grazie alla complicità del comandante dell’isola, il generale Kononovic, si fece passare per un addetto al censimento e, così, riuscì a visitare casa per casa, cella per cella, i villaggi e le prigioni dell’isola. L’unico divieto riguardava eventuali colloqui confidenziali con i deportati politici.

Tutto è, L’isola di Sachalin, tranne che un colpo d’occhio impressionistico o una raccolta di aneddoti più o meno suggestivi. È, invece, un testo sistematico, non privo di una certa acribia sociologica, corredato da statistiche e da un’ampia bibliografia.

Al lettore si chiede di esplorare con pazienza l’articolazione degli spazi e la scansione del tempo nella vita della colonia penale. Si passa dai gironi più cupi, come quello dei carceri di Due e di Voevodsk, ad agglomerati meno terribili, quali erano i villaggi situati nella parte meridionale dell’isola. Secondo la legge dell’epoca, una volta scontata la condanna ai lavori forzati, gli ex-galeotti – stremati dalla fatica fisica e da un «cinismo che oltrepassa ogni limite» – avrebbero dovuto assumere le sembianze di pacifici e solerti membri di una colonia agricola. A questo scopo, gli «ordini superiori ingiunsero di dichiarare Sachalin terra fertile e adatta all’agricoltura», senza tenere conto del fatto che nessun cereale riesce a maturare nell’arco della breve estate artica.

L’isola somigliava a una potenza malevola. L’«erba alta quanto un uomo e anche di più», le felci gigantesche e le bardane con foglie larghe un metro, la tajga inestricabile, costituivano uno scenario inquietante che «di notte, soprattutto al chiaro di luna, assume parvenze spettrali». Nessuna forma di vita comunitaria riusciva ad attecchire in quegli strani villaggi multietnici, privi di storia e tradizioni, in cui si consumavano usanze abiette come il concubinato forzato e la prostituzione delle donne deportate.

Il segno più eclatante della forma di vita vigente a Sachalin era, forse, l’oblio del tempo. Un oblio che si accompagnava alla crescita smisurata dell’apatia e all’assenza di ogni ragionevole speranza. Così, alla domanda sull’età, c’era chi rispondeva: «Trent’anni, o forse cinquanta»; molti non ricordavano i giorni della settimana; il passato sopravviveva soltanto come lancinante desiderio di vendetta. La fuga dall’isola, che d’inverno si ricongiunge alla terra ferma grazie al mare ghiacciato, restava l’unica aspirazione propriamente etica, anzi spirituale, dei prigionieri. Cechov non nasconde la sua simpatia per un proposito così degno: «Guardi quell’altra riva e pensi: se fossi un deportato, fuggirei sicuramente, a ogni costo».

Chi leggerà questo libro sulle galere zariste, non si aspetti racconti a effetto di delitti demoniaci, descrizioni degli insondabili abissi che abitano una mente criminale, cronache di fervori e pentimenti. Niente di più lontano, da queste pagine, delle idee dostoevskiane sul Male e la Redenzione che nutrono Delitto e castigo o I fratelli Karamazov.

Cechov non si stanca di spiegare quanto «quasi tutti i reati fossero terribilmente poco appassionanti, banali» e «quanto fossero incolori e squallidi gli innumerevoli resoconti (…) che mi è toccato ascoltare dai detenuti». Non è, del resto, incolore, squallida e inappariscente tutta la quotidianità di cui si è sempre nutrita la narrativa di Cechov?

Di tutt’altro genere è il viaggio che sta al centro del lungo racconto La steppa, riproposto da Quodlibet nella bella traduzione di Paolo Nori (pp. 192, euro 14,00). Pubblicato nel marzo del 1888, è uno dei testi che segnano una svolta nell’attività di Cechov, di certo il suo racconto più lirico: i tempi di stesura si allungano, lo stile si raffina. La steppa rievoca i dintorni della natia città di Taganrog, che l’autore bambino percorreva in calesse per recarsi dal nonno paterno, e conclude un nutrito ciclo di testi (da Griša a Voglia di dormire) dedicati all’infanzia e spesso alla speciale infelicità che le tocca in sorte.

Un bambino di nove anni, Egòruška, viene portato in città con un viaggio di quattro giorni perché venga iscritto al ginnasio. Gli otto capitoli scandiscono i movimenti di una partitura in cui non mancano brani virtuosistici: odori, suoni, luci, atmosfere della steppa filtrati dalla percezione del piccolo protagonista che, varcando i confini del proprio microcosmo, è investito dalla casualità senza lustro della vita con l’intensità che siamo propensi ad attribuire a un’esperienza miracolosa.

Persone di ogni rango sociale, parole udite lungo la strada, paesaggi intravisti dal calesse lasciano impressioni indelebili, destinate a trasformarsi in quei «ricordi d’infanzia» che, come i sogni, non ammettono resoconti lineari, e riportati nella scrittura di Cechov hanno prodotto alcune tra le pagine migliori della narrativa di tutti i tempi.