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C’è un vuoto di idee sulla scuola gialloverde

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La polemica All’indomani dell’abolizione transitoria della chiamata diretta dei docenti e della richiesta di proroga dell’obbligatorietà dei test Invalsi all’esame di Stato, ci aspettiamo da governo e Parlamento una seria riflessione critica […]

Pubblicato circa 6 anni faEdizione del 30 settembre 2018

All’indomani dell’abolizione transitoria della chiamata diretta dei docenti e della richiesta di proroga dell’obbligatorietà dei test Invalsi all’esame di Stato, ci aspettiamo da governo e Parlamento una seria riflessione critica sull’intero impianto dell’autonomia scolastica inaugurato 20 anni fa da Luigi Berlinguer. È un problema politico di straordinaria importanza, se è vero che su istruzione e lavoro si gioca il futuro del nostro Paese.

La cosiddetta “Buona scuola” rafforza l’autonomia scolastica istituita nel 1997, cui dà «piena attuazione» (art.1,1) orientandola alla «massima flessibilità e diversificazione» (art. 1,2) attraverso i suoi 212 commi che individuano molecolarmente tutti i campi d’azione.  Una iper-regolamentazione che impone, in modo cogente e prescrittivo, come realizzare quei processi di privatizzazione, aziendalizzazione, gerarchizzazione, verticismo, mercificazione del sapere, flessibilizzazione del lavoro, anglofonia, digitalizzazione e scuola d’impresa messi in campo 20 anni fa con una legge di riforma della pubblica amministrazione che assimilava anche le scuole “finalmente” autonome ai dettami del new public management dando la dirigenza ai presidi.

Non è un caso che l’ultima delle nove deleghe della 107 preveda modifiche agli organi collegiali, ultimo baluardo di una gestione democratica e partecipata della vita scolastica. Dalla didattica all’organizzazione, dalla gestione del personale alle assunzioni dei docenti, dalle reti di scuole ai rapporti col territorio, alla valutazione, all’alternanza scuola-lavoro, alla tecnologia digitale, alla progettazione, alle discipline, alle competenze, ai bonus premiali e fiscali: non c’è ambito in cui la 107 non preveda l’autonoma gestione politico-economica delle risorse, purchè finalizzate a efficienza e innovazione.

Le scuole pubbliche, nella mente di Matteo Renzi così come in quella di Berlinguer, sono libere, al pari di quelle private e paritarie (laiche o confessionali), di comportarsi come aziende e di competere sul mercato dell’istruzione. È così anche per il ministro Bussetti, per il premier Conte, per questo Parlamento?
Calpestandone l’originario impianto unitario, la scuola italiana negli ultimi 20 anni è stata trasformata da istituzione a servizio, e l’interesse generale cui assolveva per mandato costituzionale a bisogno particolare, locale.
Da vent’anni, cioè dall’autonomia di Berlinguer, le scuole italiane si sono trasformate in progettifici, che drenano risorse e denaro, tempo e impegno alle attività curricolari. Oggi bisogna aggiungere le centinaia di ore di studio perse per l’alternanza scuola-lavoro e il tempo sprecato per i test Invalsi, pervasivamente presenti in tutti i cicli scolastici e inutilmente preposti a fotografare l’esistente. Gli attuali Parlamento ed esecutivo si stanno muovendo con accordi e proroghe, ancorché privi di una cornice di revisione strutturale della riforma e la prima domanda intelligente da porsi non è se si intende mantenere l’impianto della 107, ma piuttosto se i vent’anni di autonomia scolastica berlingueriana più i tre anni di quella renziana hanno migliorato la scuola oppure no. La risposta è sotto i nostri occhi.

Ci aspettiamo da questo Parlamento che la chiamata diretta dei docenti venga definitivamente abolita per legge: essa è in contrasto col principio costituzionale della libertà di insegnamento. E che agli studenti venga restituito il diritto allo studio, cancellando per sempre l’alternanza scuola-lavoro.

La scuola non è un’azienda, gli studenti non devono essere costretti a lavorare, i docenti non possono essere soggetti a chiamata, i dirigenti non possono scegliere chi gli serve, come chiedono Fondazione Agnelli e Confindustria.

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