Il migliore anno di sempre: il 2023. Così lo ha definito l’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo Carlo Messina presentando ieri i risultati al 31 dicembre. Utile netto a 7,7 miliardi di euro, in crescita del 76,4% rispetto ai 4,3 miliardi del 2022, trainato dagli interessi netti. E non sarà l’unico: le previsioni per il 2024 e 2025 sono di un utile netto superiore agli 8 miliardi.”Abbiamo capitale in eccesso e la distribuzione andrà valutata anno per anno – ha detto – Abbiamo un forte potenziale interno con oltre 850 miliardi di raccolta diretta e di risparmio amministrato e abbiamo già individuato 100 miliardi che possono essere convertiti in risparmio gestito anche grazie alla discesa dei tassi”.
È interessante capire anche come la banca, uno dei colossi italiani del settore, finanzia il proprio capitalismo filantropico. C’è un “programma cibo e riparo per le “persone in difficoltà”: oltre 36,8 milioni di interventi tra il 2022 e il 2023. C’è il rafforzamento delle iniziative per contrastare le disuguaglianze e favorire l’inclusione finanziaria, sociale, educativa e culturale: si parla di circa 14,8 miliardi di euro di credito sociale e rigenerazione urbana tra il 2022 e il 2023; circa 1,5 miliardi di euro tra il 2023-2027 per iniziative sui bisogni sociali di circa mille persone. E ci sono anche gli ottanta milioni supplementari per il contratto collettivo nazionale per i lavoratori di Intesa SanPaolo, esclusi i dirigenti. Non tutti hanno avuto la fortuna, in Italia, di sostenere in maniera così egregia l’impatto dell’inflazione.
Messina ha fatto i complimenti anche all’amministratore di Unicredit Andrea Orcel. Con qualche ragione. Il gruppo bancario concorrente ha realizzato anch’esso “il migliore anno di sempre”. Con 8,6 miliardi di euro di utile, contro tutte le attese. Il quarto trimestre del 2023 è stato, in questo caso, “il dodicesimo consecutivo di una crescita di qualità e redditizia”. “Il nostro percorso è tutt’altro che terminato” ha detto Orcel. Si discuterà all’assemblea degli azionisti prevista il 12 aprile come usare questa montagna di denaro: 12 miliardi di capitale in eccesso. C’è l’ipotesi di distribuirli agli azionisti oppure fare ripartire il risiko bancario con nuove acquisizioni di istituti bancari. A tale proposito, molte sono le speculazioni: si è parlato della Popolare di Sondrio. Ma Unicredit guarda anche a Est dove ha di recente acquisito Alpha in Grecia e in Romania.
Quanto alla Popolare di Sondrio il 2023 è stato miracoloso con un utile netto a 461 milioni, miglior risultato assoluto. Utile netto consolidato di 46,8 milioni, in crescita del 24% rispetto all’anno precedente anche per Mediocredito Centrale che ha chiuso il 2023 con le banche del gruppo, BdM Banca (ex PopBari) per la prima volta in utile dall’acquisizione nel 2020.Oggi toccherà al Monte Paschi comunicare i suoi profitti record. L’istituto senese ha chiuso i 9 mesi del 2023 con un balzo dell’utile netto a 929 milioni di euro, il triplo rispetto all’anno prima. L’utile 2023 potrebbe addirittura ammontare a circa 1,5 miliardi, lasciando spazio alla distribuzione immediata di un dividendo agli azionisti.
Sono dati che dimostrano come le banche, anche in Italia, siano state tra i vincitori della crisi dell’inflazione che sta diminuendo, anche se è ancora lontana dall’auspicato 2% (dalla Banca Centrale Europea). Sono il risultato combinato con l’aumento dei tassi di interesse deciso dalla Bce per domare l’impennata dei prezzi. La Bce ha sostenuto nel rapporto sulla stabilità finanziaria che le banche hanno «aumentato la loro redditività». Le incognite esistono anche per loro: l’aumento dei costi di finanziamento derivante dalla crescita dei tassi di interesse (al 4%, massimo storico) ha come effetto una minore domanda di prestiti e il crollo dei mutui, oltre che l’erosione del potere di acquisto dei salari. Sta di fatto che, al momento, gli «attivi» crescono. È l’esito di una politica circolare. L’inflazione è stata creata anche dal record di profitti avvenuto negli anni della pandemia. La politica monetarista pensata per farla diminuire contribuisce ad aumentare gli stessi profitti.
Nella politica italiana questa consapevolezza non è del tutto chiara. Si preferisce soffermarsi su un aspetto, pur importante, degli “extraprofitti”. Quando, in realtà, si sta parlando di un sistema globale fatto da imprese gigantesche, al quale partecipano anche le banche. “Nel 2022 le banche italiane hanno realizzato profitti record per ben 25 miliardi di euro, e il 2023 è andato ancora meglio, si parla di oltre 35 miliardi – ha detto per esempio Nicola Fratoianni (Alleanza Verdi Sinistra) – E lo hanno fatto senza sforzo, grazie all’aumento dei tassi d’interesse. Non ci sono dubbi: avrebbero potuto pagare qualche tassa in più per migliorare servizi, infrastrutture e diritti. In Spagna hanno dovuto farlo. Meloni invece ha preferito non disturbare e ha preferito far pagare lavoratori e famiglie, che hanno dovuto metter mano ai propri risparmi per pagare il conto”.

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“Grazie alla mossa pavida del Governo, che dopo la faccia feroce si è rimangiato la tassa trasformandola in contributo facoltativo, soltanto questi due gruppi bancari hanno potuto non versare 1,2 miliardi. Alla fine della fiera, considerando tutto il sistema del credito, mancheranno fino a 3 miliardi di euro, che sarebbero stati fondamentali per aiutare chi non ce la fa a pagare le rate di prestiti e finanziamenti” ha detto Daniela Torto, capogruppo M5S in Commissione bilancio della Camera – Non regge la bufala raccontata a tutto il globo terracqueo da Meloni secondo la quale rinunciare a incassare la tassa avrebbe permesso alle banche di patrimonializzarsi e quindi erogare più credito al sistema economico”.

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Si può pensare che i megaprofitti confermati in questa settimana dalle banche siano serviti ad aumentare gli investimenti, e dunque a creare lavoro, aumentare la produzione, pagare più tasse come ha auspicato Meloni all’inizio di gennaio in una conferenza stampa dove ha parlato di un’“operazione Win Win”? Lo si vedrà, ma per il momento non è così, almeno per i dati pubblicati dall‘Associazione Bancaria Italiana (Abi): la famosa norma extraprofitti annunciata da Meloni, poi svuotata. Da settembre 2023, quando il populismo finanziario fece deragliare la retorica delle destre, il credito concesso dalle banche è stato minore del 3,7 percento, rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Era ottobre. Il mese successivo è diminuito ancora del -3,5 percento. A dicembre ancora meno: 3,9 percento, per un totale di 1.669,6 miliardi di euro di “risparmi”. Stesso destino per il credito a famiglie e società non finanziarie: a ottobre è stata toccata la cifra più bassa del 2023.

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Tutto considerato, qui sta emergendo il profilo di un sistema finanziario che aumenta i profitti, ma non eroga almeno in proporzione gli investimenti “produttivi”, nella cosiddetta “economia reale”. Li reinveste in acquisizioni, oppure li distribuisce agli azionisti.
Una parte di questa tendenza era stata descritta all’inizio del 2023 nel dibattito sulla “greed inflation”, cioè l’inflazione dell’avidità, prodotta dai profitti accumulati sin dalla pandemia, e non dal circolo vizioso tra i prezzi e i salari. Quest’ultimo non è mai esistiti e, se i salari sono aumentati (non in Italia), sono stati compensati dagli aumenti degli utili.
Il concetto di “Greed Inflation” è stato lanciato da alcuni economisti delle banche d’investimento. “L’inflazione dei prezzi di oggi è più un prodotto dei profitti che dei salari”, ha scritto a novembre Paul Donovan, capo economista di UBS Global Wealth Management, accusando le aziende di aver “approfittato delle circostanze per espandere i margini di profitto”. In aprile, Albert Edwards, “stratega” di Société Générale, la terza banca francese, ha espresso incredulità per il modo “senza precedenti” e “sorprendente” in cui le grandi imprese hanno usato le perturbazioni degli ultimi anni, che hanno provocato l’inflazione, come “scusa” per aumentare i “margini di profitto super-normali”.

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A tale proposito Robert Reich, già segretario del lavoro degli Stati Uniti durante la presidenza di Bill Clinton, è stato tra quelli che hanno chiesto il “controllo dei prezzi”, un’idea considerata come uno spettro dai governanti neoliberali ed esclusa a priori dalle banche centrali da cui dipendono. “L’inflazione che stiamo vivendo non è dovuta ai guadagni salariali derivanti dall’eccessivo potere dei lavoratori – ha scritto Reich – È dovuta ai guadagni di profitto derivanti dall’eccessivo potere delle imprese”.
Non è una questione monetaria, ma l’esito di un rapporto di potere. Non riguarda solo i più ricchi, né solo le banche, ma un sistema finanziarizzato che non inverte la piramide globale da cui sgocciola sempre meno denaro verso il basso. L’inflazione è uno dei segni di un conflitto. Serve a rendere più docili le timide richieste di aumenti salariali.