In Spagna tutti sanno che né l’unilateralismo indipendentista né la strenua difesa dello status quo possono portare risultati. Se i principali attori in scena non cambieranno copione, la questione catalana non farà che incancrenirsi, finendo per danneggiare oltre il tollerabile la pacifica convivenza, in Catalogna e nel resto del Paese. Il problema è che, fino ad ora, i due fronti contrapposti hanno tratto vantaggio dal muro-contro-muro. E tutto lascia pensare che così continuerà ad essere, salvo che qualcuno, nei rispettivi blocchi, osi l’inaudito: dare ragione alle terze forze, quelle che da tempo propongono la soluzione federale. Inascoltate.

In politica, si sa, nessuno cede volontariamente potere. Salvo casi eccezionali. I dirigenti del Partido popular dovrebbero, oggi, dimostrare di aver capito che la strategia dell’immobilismo non paga, e che di fronte ad una crisi politica di straordinaria gravità a loro tocca agire con «senso dello Stato». Tradotto: aprire per davvero a una revisione costituzionale in senso federale che, se fatta sul serio, porterebbe quella formazione a perdere influenza. Attendersi ora qualcosa di simile da Mariano Rajoy e compagnia è come credere alle favole. Ma senza il concorso del Pp non è realistico pensare a nessuna vera mutazione dell’assetto politico spagnolo che possa durare negli anni. Ovviamente spiace riconoscerlo, ma è così. E il dramma spagnolo è proprio questo.

A complicare il quadro non è soltanto il loro impianto ideologico centralista, quanto il fatto che da una modifica costituzionale in senso federale i populares avrebbero soltanto da perderci. Lo si capisce molto bene se si immagina come sarebbe diverso da quello attuale un Senato che ricalcasse il Bundesrat, la camera dei Länder della Germania, cioè del Paese a cui si ispirano le ipotesi di riforma avanzate dai federalisti. Il Senato in Spagna non vota la fiducia al governo, ma non è irrilevante. Nomina giudici della Corte costituzionale e membri del Consiglio superiore della magistratura, e decide se attivare l’ormai famoso articolo 155 della Costituzione, quello che consente il commissariamento delle Comunità autonome da parte dell’esecutivo di Madrid. Attualmente il Pp detiene alla Camera alta la maggioranza assoluta, in virtù di un sistema elettorale maggioritario a base provinciale che gli calza a pennello. Se il modello fosse invece quello del Bundesrat, i rapporti di forza sarebbero diversissimi, perché nella Camera alta tedesca sono rappresentati i governi regionali. E attualmente il Pp amministra solo cinque Comunidades su diciassette, la Castiglia – León e la Galizia, tradizionali roccaforti della destra, la Comunità di Madrid, Murcia e la minuscola La Rioja.

Il motivo è semplice. Ci sono regioni in cui il Pp ha la maggioranza relativa di voti e seggi, ma l’alleanza fra socialisti del Psoe e altre forze, come Podemos in Castiglia-La Mancia e Valencia, o movimenti locali in altre Comunità, rende possibile un governo progressista di coalizione. Simulando quindi la composizione di un Senato «modello tedesco» è facile vedere come attualmente la maggioranza sarebbe appannaggio delle forze di sinistra, che guidano otto Comunidades e sono socio minore di coalizione in altre due, Paesi Baschi e Cantabria. I popolari ne sono perfettamente coscienti e c’è dunque da aspettarsi che la trasformazione in chiave federale della Camera alta sia tanto necessaria quanto difficile.

Un altro nodo è quello della procedura con cui si approvano gli Statuti di autonomia. È cosa nota che all’origine della crisi attuale vi sia la sentenza della Corte costituzionale che nel 2010 bocciò alcuni articoli della «legge fondamentale» catalana. Ciò che scatenò le ire di buona parte del mondo politico di Barcellona (socialisti compresi) e che innescò le mobilitazioni fu soprattutto il fatto che la pronuncia arrivava dopo l’approvazione del testo tramite referendum. È vero (e sacrosanto) che la sovranità si esercita nei limiti della Costituzione, ma è oggettivamente difficile da accettare che dopo un «sì» popolare arrivi un «no» di qualcun altro. Non a caso, in Italia il giudizio della Consulta sull’ammissibilità dei referendum è preventivo: se i supremi giudici danno l’ok, allora il popolo dice l’ultima parola.

Calato nella realtà iberica, lo «schema italiano» sul referendum dovrebbe suggerire di ripensare il ruolo della Corte nel processo di approvazione degli Statuti, facendo in modo che dopo il referendum non sia più possibile alcun ricorso. Ma, di nuovo, per il Pp significherebbe oggettivamente cedere terreno. Se Rajoy per contrastare l’odiato Statuto avesse dovuto convincere la maggioranza dei catalani invece che qualche anziano giudice conservatore, la storia sarebbe andata diversamente.