Centoquarantatre giorni. Hiwett non smette di contare le albe dallo scorso 24 maggio, quando cinque poliziotti sudanesi si sono presi il fratello in un bar di Khartum. Incappucciato e spedito in Italia dove lo attende una cella e un lungo processo. «Abbiamo catturato Medhanie Yehdego Mered, il più feroce trafficante di uomini della storia», annunceranno gli inquirenti giorni dopo.
Le immagini di un giovane eritreo, con i capelli arruffati, che scende mezzo addormentato le scale di un aereo a Fiumicino fanno il giro del mondo. Arrivano anche ad Oslo, dove Hiwett vive da 5 anni. La ragazza non crede ai suoi occhi: «Quello è mio fratello! Non è Mered. Mungeva vacche in Sudan in attesa di raggiungermi in Europa».

DA QUASI CINQUE MESI, una cella del carcere di Pagliarelli a Palermo ospita un giovane eritreo che i pm dicono essere Yehdego Mered, detto «il Generale», il più sanguinario tra i mercanti di uomini in Libia. Ma poche ore dopo il suo arresto, sui maggiori siti d’informazione iniziano a circolare le testimonianze di numerosi rifugiati che sollevano dubbi sull’identità dell’uomo estradato. Sono tutti eritrei, vittime giunte in Europa sui barconi della morte del «vero Mered». E tutti sostengono che l’uomo catturato a Khartum non è lui.

Al numero 90 di York Way, negli uffici del Guardian di Londra arrivano decine di telefonate per denunciare il «clamoroso scambio di persona’». Arriva anche la voce singhiozzante di Hiwett. «Il ragazzo arrestato si chiama Medhanie Trasfamariam Behre , è un rifugiato di 26 anni, è nato nel quartiere Ghezzabanda ad Asmara. Io mi chiamo Hiwett e sono sua sorella». L’identità del ragazzo fornita ai giornali da Hiwett è la stessa rilasciata ai magistrati dal giovane estradato, nel primo interrogatorio il 4 giugno 2016: «Sono innocente – ribadirà Medhanie ai pm – Non sono io il trafficante Mered. Abbiamo solo lo stesso nome di battesimo».

MEDHANIE YEHDEGO MERED non è un eritreo qualunque. I suoi connazionali lo conoscono bene. I procuratori di Palermo Maurizio Scalia, Gery Ferrara e Claudio Camilleri nel 2015 ne tracciano un profilo preciso e terrificante nelle carte dell’operazione «Glauco II». «Sono il nuovo Gheddafi», si vanta al telefono il «Generale», 34 anni. Cinico e arrogante, parla dei migranti come merce da caricare e scaricare. «Quest’anno ho lavorato bene – ripete al telefono – ne ho fatti partire 8.000». Gode di complicità eccellenti e, soprattutto, guadagna bene. I profitti viaggiano su cifre a sei zeri. Una montagna di soldi che Mered custodirebbe in un conto a Dubai. Di lui gli inquirenti hanno anche una foto, rilasciata agli organi di stampa lo scorso anno. Capelli lunghi, baffi e al petto un grosso crocifisso d’oro che penzola su una maglietta azzurra.

È proprio quella foto ad alimentare i primi sospetti su un possibile scambio di persona. Il ragazzo dallo sguardo spento, con le manette ai polsi, appena estradato a Roma dal Sudan non gli somiglia affatto. Nei corridoi della Procura di Palermo la tensione prende il posto dell’euforia. Sulla vicenda interviene anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando, pronto ad assicurare che «le autorità stanno lavorando alle verifiche del caso». Un caso «singolare», ammetterà il Capo della Procura di Palermo Francesco Lo Voi, precisando tuttavia che «la gestione dell’operazione è stata condotta dalla Nca britannica e dalle autorità sudanesi». Lo Voi dice il vero. Se c’è stato un errore, la responsabilità non è degli italiani. Sono gli inglesi dell’Nca (equivalente dell’Fbi) a occuparsi della cattura del sospettato. In Italia non vige alcun accordo con Khartum e con il suo presidente Omar Hasan Ahmad al-Bashir sul quale pende un mandato di cattura emesso dal Tribunale penale internazionale per genocidio.

Se gli italiani vogliono acciuffare Mered, hanno bisogno dell’appoggio di Londra che in Sudan gode di rapporti extra-diplomatici. La collaborazione tra i britannici e la procura di Palermo inizia a maggio del 2015. In Sudan risiedono oltre 200.000 eritrei. Khartum è una tappa obbligatoria per chi vuole imbarcarsi dalla Libia. Ed è proprio a Khartum che, secondo i pm, potrebbe nascondersi Mered.

IN UNA MAIL INVIATA il 21 gennaio del 2016 al procuratore Gery Ferrara dall’agente della NCA nel Corno d’Africa Roy Godding, di cui il manifesto è in possesso, lo 007 inglese comunica al magistrato di aver trovato a Khartum un uomo che sembra rispondere all’identikit del ricercato.

«La Nca dispone di elementi credibili che indicano che Medhanie possa avere un domicilio a Khartum – scrive Godding – Riteniamo però che potrebbe lasciare il Sudan alla fine dell’inverno. Dobbiamo agire in fretta’’. La pista sembra quella giusta, anche perché dal cellulare dell’uomo arrestato partono tre chiamate dirette ad un trafficante di uomini di stanza in Libia. Il 24 maggio Medhanie verrà arrestato in un bar di Khartum mentre sorseggia una tazza di caffè caldo a pochi passi dal suo appartamento: una bettola dai muri scrostati dalla muffa che il giovane condivideva con altri 4 coinquilini. Le foto di quell’appartamento, inviate da uno dei compagni di stanza del ragazzo imputato, sono pubblicate in esclusiva in questo articolo.

A rincarare la dose del probabile equivoco, i poliziotti che fanno irruzione in casa di Medhanie non trovano né armi né indizi e i suoi coinquilini risulteranno non coinvolti nell’indagine né nel traffico di uomini. Strano per un uomo che a detta degli inquirenti, «fa la bella vita in Sudan, scortato da uomini armati e intasca 100mila dollari per ogni viaggio». Godding però ne è sicuro. Si fida dei sudanesi che lo hanno catturato. E consegna il ragazzo nelle mani degli italiani.

Nell’assidua corrispondenza tra Godding e Ferrara, emerge un curioso particolare: nelle mail inviate al procuratore palermitano, l’agente della Nca chiama il ricercato con il suo nome di battesimo: Medhanie. Fin qui nulla di strano, se non fosse che il giorno della cattura, il sito della Nca britannica festeggerà l’operazione titolando: «Il Supertrafficante Medhanie arrestato in Sudan». Come a dire insomma che «Gennaro è stato arrestato a Napoli». Medhanie è infatti uno dei nomi più comuni tra gli eritrei. Un «errore» che scatenerà confusione tra i cronisti impegnati a scrivere sulla vicenda, seguita dall’immediata rettifica della Nca. Che Roy Godding abbia preso un granchio a partire dal nome dell’eritreo è una ipotesi che l’avvocato Michele Calantropo, difensore del giovane arrestato, non sente di escludere. «Medhanie è il corrispettivo di Rosario a Palermo – spiega l’avvocato – Se a questo aggiungete che al mio cliente sono state intercettate tre conversazioni con un trafficante, la coincidenza per Godding si è erroneamente trasformata in certezza». Ecco, appunto.

LE TRE CONVERSAZIONI intercettate continuano a rappresentare un solido pilastro per i pm a conferma della irreprensibilità dell’operazione. Il contenuto di quei dialoghi viene svelato durante la prima udienza del processo preliminare il 4 luglio scorso. Dalle intercettazioni, si evince che il ragazzo sospettato in realtà non desideri parlare con i trafficanti, ma con un giovane eritreo che conosce bene. Si chiama Kezete ed è in partenza dalla Libia. Il ragazzo da Karthoum lo rassicura, dice che ha parlato con i suoi famigliari e che faranno avere i soldi per imbarcare Kezete quanto prima. Ordinaria amministrazione nei viaggi della speranza, dove i rifugiati sono costretti a consegnare i propri cellulari ai trafficanti. Saranno poi questi a contattare famigliari o amici per accertarsi che abbiano saldato il conto della traversata, effettuando uno squillo sui loro telefoni e attendendo così di essere richiamati.

«Il mio cliente non è un trafficante – dice Calantropo – Ha comunicato con alcuni di loro al telefono, solo per poter parlare con suo amico che doveva attraversare il Mediterraneo. Ma questo non fa di lui un trafficante. Se sono un eritreo e voglio raggiungere l’Europa non posso di certo recarmi in aeroporto». Le telefonate vengono utilizzate dai procuratori per comparare la voce dell’uomo arrestato con quella di Mered intercettato nel 2014. L’esito però della perizia fonica risulterà «inconcludente». Secondo il perito del tribunale infatti «non è possibile affermare che la voce di Mered sia la stessa dell’uomo arrestato».

IL 2 LUGLIO arrivano a Palermo due testimoni chiave. Uno si chiama Ambesajer Yemane, ha 23 anni, vive in Svezia ed è un rifugiato. L’altro, seppur identificato dall’avvocato, preferisce non rilasciare il suo nome alla stampa – lo chiameremo Birhan. Sono entrambi eritrei, arrivati in Europa su uno dei barconi di Mered. Non conoscono il ragazzo estradato in Italia, ma sono sicuri che non si tratti di Mered. E loro lo conoscono bene Mered. «Il Generale mi ha truffato – racconta Birhan a il manifesto – Dovevo partire per l’Europa. Avevo pagato il mio biglietto. Ma durante il viaggio, Mered ha venduto me ed altri compagni ai beduini. Ci hanno torturati per 10 mesi. Molto dei miei compagni sono morti. Io sono riuscito a salvarmi. Ho dovuto ripetere il viaggio dall’Etiopia. Quando sono arrivato in Libia l’ho rivisto lì quel bastardo. Sparava in aria con un fucile e fumava hashish». E ancora: «Non so chi sia l’uomo che gli italiani hanno arrestato – dice – ma di certo non è Mered».

I pm non riterranno però le loro testimonianze attendibili. Per provare la sua innocenza Medhanie fornirà ai magistrati le password per accedere ai suoi account Facebook e Yahoo. Proprio su Facebook i pm puntano l’indice su una chat tra l’uomo arrestato e Lidya Tesfu, indicata nelle carte di Glauco II come la moglie di Yehdego Mered. Per i procuratori si tratta dell’ennesima prova. Eppure, quella chat – il cui contenuto è in possesso de il manifesto – sembra scagionare l’imputato.

Su Facebook la Tesfu è una donna popolare e stringe amicizia con migliaia di eritrei. Il giovane arrestato è uno di questi. In chat il ragazzo intenta delle sfrontate avances a Lidya. «Ci siamo visti ad Asmara – scrive lui – è possibile?». «Impossibile! – risponde lei – non vado ad Asmara da anni e non mi ricordo di te». Poi lo liquida: «Sono sposata e mio marito è un uomo molto geloso». Il marito, ovviamente, è il «Generale» Yehdego Mered.

A fine luglio, dopo la seconda udienza, i magistrati affermano di aver trovato delle ‘’foto raccapriccianti’’ sul cellulare sequestrato al ragazzo. ‘’Corpi di migranti fatti a pezzi’’ diranno i pm. Peccato che quelle foto arrivino direttamente da un sito web buddista che descrive un rituale di purificazione tramite il sezionamento di corpi già deceduti. Anche in questo caso il manifesto è in possesso di alcuni screenshot.

Intanto a Palermo, la Procura, pressata dai media, si chiude in silenzio stampa mentre in città arriva anche Hiwett con il figlio di un anno. L’amministrazione del carcere di Pagliarelli le vieterà un tanto atteso incontro con il fratello. «Lui è Medhanie Yehdego Mered, e non ci risulta abbia sorelle», dicono dalla direzione. «Tutto questo è assurdo – si dispera Hiwett – dovevano catturare un trafficante. Hanno preso un rifugiato. Uno di quelli che dovrebbero proteggere».

DA QUALCHE MESE Medhanie non è più lo stesso. «All’inizio era spaventato – racconta l’avvocato Calantropo – Ora invece non vuol parlare con nessuno, sta male. E le notizie sull’esito del processo non aiutano il suo morale». Il 21 settembre scorso, il Gip Alessia Geraci, decreta il suo rinvio a giudizio. La prima udienza è prevista il 21 novembre. Medhanie sa già che dovrà trascorrere ancora molto tempo in carcere, dove le ore scorrono lente, come le albe, giorno dopo giorno. Sono 143 per l’esattezza. Quei giorni che Hiwett non smette di contare. Quei giorni che Medhanie, da 4 mesi dietro le sbarre, ha smesso invece di contare da un pezzo.