Sostiene Stefano Fassina (vedi il manifesto dell’11 febbraio), e con ottime ragioni, che l’eurozona è sulla rotta del Titanic: l’iceberg è sempre più vicino, l’Unione già è fratturata in più punti. Ma non nascondiamoci che a costruire una nave così malfatta, e a imboccare una rotta così rovinosa, c’è purtroppo la sinistra classica europea, e in prima fila il Pd. Anche per questo abbiamo scelto Alexis Tsipras come punto di riferimento e imbarcazione alternativa. Il suo giudizio su socialdemocratici e socialisti europei è molto severo, e per parte mia lo condivido.

A partire dalla metà degli anni ‘90, la loro rotta è stata precisamente quella che ci ha portato a sbattere contro l’iceberg. Non dimentichiamo poi che Tony Blair ha fatto di tutto per sfasciare quel poco di unione che c’era in Europa. Ha lavorato contro ogni proposta federale nella Convenzione che negoziò il Trattato di Lisbona; ha sistematicamente difeso la rinazionalizzazione delle politiche comunitarie; ha contribuito in larga misura al ritorno della vecchia balance of powers nel continente: a quell’equilibrio fra sovranità nazionali assolute che lo precipitò nel ‘900 in due guerre mondiali e contro cui si scaglia, da anni, Jürgen Habermas. È questa balance of powers ad aver creato un predominio tedesco del tutto esorbitante, non una qualche malefica natura della Germania.

La linea Blair è oggi vincente nell’Unione, ed è distruttiva al massimo grado. Lo è anche per quanto riguarda la storia della sinistra: il patrimonio della sinistra era ed è ancora la battaglia per l’uguaglianza sociale e il bene pubblico, e Blair l’ha polverizzato, dando vita a quella che Marco Revelli chiamò, sin dal 1996, la funesta rivalità fra «Due Destre». È all’elettorato in rivolta contro quest’involuzione che si rivolge la Lista Tsipras, oltre che a tutti gli europeisti insubordinati che – lo dicono i sondaggi – sono in Italia una grande maggioranza, presente in varie formazioni politiche, in iniziative e comitati cittadini, in gran parte dell’astensionismo. Per inciso, ricordo qui che Tony Blair resta ancor oggi, nonostante le devastazioni che ha lasciato in eredità, il modello principale cui Matteo Renzi promette di attenersi. L’involuzione del Pd, con Renzi, non subisce battute d’arresto.

So benissimo che nel Partito democratico e anche nel gruppo socialista europeo esistono forze contrarie a questa rotta. Tra queste forze ci sono Giuseppe Civati e – in alcuni momenti e di nuovo nell’articolo che ha scritto sul manifesto – anche Fassina. Il problema sorge quando dalle dichiarazioni ideali si passa al comportamento pratico. Il Pd, che dal 2011 è tornato al governo – prima coalizzato con Berlusconi, poi con il Centro destra di Alfano, per prepararsi oggi a una nuova Grande o Piccola Intesa – non ha esitato un secondo ad accettare, nel 2012, che il Fiscal Compact venisse inserito nella Costituzione. La verità è che non c’era obbligo alcuno di farlo. La Commissione europea s’era limitata a dire che tale soluzione era «preferibile», e senza provocare strappi il governo francese si è rifiutato di costituzionalizzare il pareggio di bilancio. Di questa schiavitù volontaria, terribilmente costosa per gli italiani già piegati dalla crisi, non scorgo traccia nell’articolo di Fassina, né tantomeno nelle parole di Renzi.

Stesso peccato di omissione per quanto riguarda la trojka, che il gruppo socialista a Strasburgo ha recentemente giudicato illegale dal punto di vista comunitario, e fonte di gravi conflitti di interesse (sia per quanto riguarda la Commissione che la Bce). Ma critiche simili giungono davvero in ritardo – la decisione di alzare la voce è stata presa solo nel gennaio scorso! – a disastro ormai avvenuto.
Analogo divario tra parole e comportamenti reali è ritrovabile nella politica fin qui seguita da Martin Schulz, candidato-presidente dei socialisti europei e del Pd. Tra le numerose sue incoerenze, vorrei qui rammentare il ruolo che ha svolto nel negoziato per la Grande Coalizione in Germania, dopo le elezioni di settembre: la parte europea dell’accordo lo ha visto protagonista, nella veste di Presidente del Parlamento di Strasburgo, e ciascuno ha potuto constatare come il capitolo europeo riprenda in toto le idee di Angela Merkel, comprese le obiezioni che fin dall’inizio della crisi il suo governo e la Bundesbank hanno mosso a un maggiore coinvolgimento della Banca centrale europea, agli eurobond, a una gestione solidale dei debiti pubblici, al Piano Marshall che il partito socialdemocratico aveva difeso in campagna elettorale. Se c’è una certezza che anima oggi Schulz è la seguente: è da una Grande Coalizione social-conservatrice che dipende la sua aspirazione a essere eletto Presidente dell’esecutivo europeo, o anche solo Commissario.

Detto questo, concordo su molti punti di sostanza elencati da Fassina: occorre scardinare gli equilibri esistenti nel Parlamento europeo, uscire dalle chiusure della sinistra radicale impersonata dal Gue, sventare un’ennesima Larga Intesa fra socialisti e partito popolare (ma come giustifica, a questo punto, l’intesa Renzi-Alfano-Berlusconi su governo e riforme istituzionali?). Occorre creare un vasto schieramento di europeisti contro i difensori dello status quo. Uno schieramento che potrebbe includere un Gue in maggiore sintonia con Tsipras, dunque trasformato, i Verdi, i socialisti contrari al patto con il centro destra, i futuri deputati Cinque Stelle, e anche i liberali che fortunatamente hanno indicato come candidato-Presidente una persona di chiara fama europeista, Guy Verhofstadt.

Ma prima, toccherà vedere quali saranno le forze che emergeranno dalla competizione di maggio, e se sarà realizzabile una maggioranza trasversale in favore di scelte essenziali, che riassumerei così: sì all’euro, ma in un’Unione che abbandoni le politiche di austerità e il Fiscal compact, che si dia istituzioni democratiche e dunque un Parlamento costituente, che faccia nascere una Banca centrale che sia prestatrice di ultima istanza, non continuamente alla mercé del più influente Istituto di emissione nazionale, la Bundesbank tedesca. No all’Europa delle Costituzioni violate e dei cittadini inascoltati, no alla trojka Commissione-Banca centrale-Fondo monetario; sì a un bilancio europeo in crescita, da utilizzare per piani di comuni investimenti in una ripresa economica ecosostenibile, sulla scia della proposta «New Deal 4», che prevede un’Iniziativa di cittadini europei (Ice) sulla base dell’articolo 11 del Trattato di Lisbona. Il che vuol dire, conseguentemente, sì all’’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie e sull’emissione di anidride carbonica, ma con l’impegno a devolvere il gettito al comune bilancio comunitario. E ancora: no a un Trattato commerciale con gli Stati Uniti che metta fra parentesi le due tasse (Tobin tax e carbon tax) e scavalchi le norme e gli standard di qualità che l’Europa impone al commercio di prodotti nocivi alla salute e al clima, e la cura di servizi pubblici come acqua o energia. Sì, infine, ai diritti dei vecchi e nuovi cittadini europei – e no a un Mediterraneo che già oggi è tomba di decine di migliaia di immigrati.

Il Manifesto per un’altra Europa suggerito da Fassina si costruirà dopo questa competizione fra idee e comportamenti radicalmente lontani, al momento, gli uni dagli altri. Difficile pensarlo nel momento in cui assistiamo all’ennesimo fratricidio avvenuto dentro il Pd. Un fratricidio che ci riconsegna la formula delle Grande Intese, e un semplice cambio di maschera al vertice (la maschera di Renzi al posto di quella di Letta). Se da questo sconquasso e da questi sotterranei tradimenti nascerà a Strasburgo un accordo sulle linee prospettate da Fassina, sarà una di quelle «divine sorprese» di cui prenderemo atto, senza smettere di vigilare sulla coerenza tra parole e azioni