Un ironico incubo in cui nelle isole del Capo Verde non c’è più grog con cui tirarsi su di morale: con un suo testo nel creolo dell’arcipelago, Carmen Souza reinterpreta il Cape Verdean Blues di un musicista a lei molto caro, Horace Silver, il più importante protagonista di origini capoverdiane della vicenda del jazz. È uno dei primi brani con cui si è presentata qualche sera fa al Blue Note, con il contrabbasso o il basso elettrico del portoghese Theo Pascal e la batteria del mozambicano Elias Kacomanolis, e, in un formato di grande economia ma utilizzato con estrema vivacità, la chitarra e il pianoforte a cui si alterna la cantante. Se una nuova generazione di cantanti di nascita o origine capoverdiane salita alla ribalta internazionale, si pensi a Lura o a Mayra Andrade, ha cercato di rinnovare rispetto alla tradizione incarnata da una Cesaria Evora aggiornando il repertorio e l’impostazione o andando in una direzione più spregiudicatamente pop, Carmen Souza, con il suo approccio e i suoi interessi che guardano al jazz, è un caso a parte. Vocalità agile, di appeal, timbricamente varia, bella padronanza del canto di tipo jazzistico, Carmen Souza ha pubblicato a partire dal 2005 diversi album: l’ultimo quest’anno è Creology (Galileo). «Cape Verdean Blues – racconta – di volta in volta cambia, a volte in un senso più capoverdiano, a volte più jazz: cerco di creare un’armonia fra un lato e l’altro. Ma ho in repertorio anche altri brani di Horace Silver. Song for My Father lo reinterpreto un po’ in chiave di coladera, un ritmo da ballo, cercando di portare la sua musica più dal lato del Capo Verde. Pretty Eyes invece lo faccio in uno stile più jazz, e io suono il piano: lo interpreto in maniera molto semplice, in modo che la melodia, così bella, emerga».

Riprendere «Song for My Father» è anche un omaggio alla tua famiglia…

Sì, i miei genitori sono del Capo Verde, io sono nata a Lisbona ma sono cresciuta circondata dal cibo, dalla lingua, dal modo di essere dei capoverdiani, è qualcosa che è parte di me.

Come hai cominciato a cantare?

Non lo ricordo nemmeno: i miei mi hanno detto che sono sempre stata molto attratta dalla musica, fin da piccola, che se c’era un pianoforte mi mettevo ad imitare come si suona, e che prendevo spesso la chitarra di mio padre e cercavo di suonarci qualcosa. Fino ai diciassette anni cantavo in casa, sopra i dischi che avevamo, e in chiesa gospel, ma niente di professionale. Poi ho incontrato Theo Pascal e mi ha detto che avevo talento e che dovevo impegnarmi seriamente. Rimasi piuttosto sorpresa, non avevo mai pensato alla cosa in quei termini. Abbiamo cominciato a esplorare delle idee assieme, e sono ormai sedici anni che continuiamo. E confido che ce ne siano ancora di più davanti a noi.

L’incontro con Theo è stato anche quello con il jazz…

Fino a quel momento non conoscevo il jazz. Theo aveva molti album, ed ero molto curiosa: i dischi di musicisti come Charles Mingus e Bill Evans mi affascinavano per come sviluppavano la loro musica, per la «voce» speciale che sentivo in loro, per il coraggio di rischiare nella musica, e ho cominciato ad ascoltare sempre di più. Amo molto Charles Mingus, un grande compositore, il modo con cui esprime la sua musica, stupefacente. Poi ho ascoltato tante cantanti, Ella Fitzgerald, Billie Holiday… E ho cominciato a portare tutto questo nella mia musica, cercando di trovare anch’io la mia «voce».
Trovo che ci sia una forte vena di humour non solo nel modo di proporre certi brani, ma spesso nella tua stessa espressione vocale, un’espressione che può essere molto mobile anche all’interno del medesimo pezzo…

Interpreto delle parole, parlo di molte cose, e questo mi porta in direzioni diverse. Per esempio Donna Lee, il brano di Charlie Parker: penso all’aneddotica che ci sta dietro, ma anche al sound del sax, e cerco di combinare tutto questo. Cerco di usare la voce non come una vocalità regolare, ma di tirare fuori diversi registri e diverse espressioni. Dipende anche un po’ dall’ispirazione della giornata.

Hai nominato Ella Fitzgerald e Billie Holiday…

Torno sempre ad ascoltarle, perché la loro musica va oltre le barriere e oltre gli anni, le ascolti oggi e senti ancora la loro potenza. Naturalmente ho ascoltato molta musica capoverdiana, cantanti come Cesaria, ma sono cresciuta con i vecchi dischi di mio padre, che aveva l’abitudine di non ascoltare musica con cantanti, ma invece molta musica strumentale, penso che la passione che ho per la musica strumentale venga da lì, e poi ho scoperto il jazz: tengo molto presente Billie Holiday, Ella Fitzgerald, ma uso la mia voce con in testa anche i suoni degli strumenti, la tromba, il sax. E in realtà ascolto più musica strumentale che cantanti.

«Creology» è un titolo programmatico…

Significa veramente così tante cose… Creare, ovvero la logica della creazione. Ma anche quello che nasce tra vecchie e nuove tradizioni, tra culture diverse. Per esempio nelle isole del Capo Verde non c’era nessuno quando sono state colonizzate dai portoghesi, e il mix fra loro e gli africani che hanno portato come schiavi ha creato una nuova umanità, il creolo. E così nella nostra musica mescoliamo jazz con Capo Verde, Mozambico, Angola, Brasile, e ci mettiamo un’impronta nostra. È un titolo che funziona molto bene per noi, perché pensiamo che stiamo tirando fuori qualcosa di nuovo dalla cultura creola.