Carlo Ginzburg, tempi duri per l’approdo alla verità dei fatti
Metodi della storiografia Nei saggi di «Rapporti di forza» Carlo Ginzburg si interrogava, oltre vent’anni fa, sulla possibilità di mantenere una consapevolezza del carattere retoricamente costruito della conoscenza, unendola a un concetto di prova: riedito da Quodlibet
Metodi della storiografia Nei saggi di «Rapporti di forza» Carlo Ginzburg si interrogava, oltre vent’anni fa, sulla possibilità di mantenere una consapevolezza del carattere retoricamente costruito della conoscenza, unendola a un concetto di prova: riedito da Quodlibet
Noto nell’ambito della storiografia per la teorizzazione della microstoria e del paradigma indiziario – e, naturalmente, per la loro applicazione nelle sue opere più famose, da I benandanti a Storia notturna, Carlo Ginzburg ha proposto a partire dal concetto di «tracce» una complessa ermeneutica delle fonti, cercandovi il non detto, aprendo ad arditi accostamenti congetturali e raccontandole attraverso seducenti strategie narrative.
I suoi sono metodi lontanissimi da una concezione positivista dei «fatti». Tuttavia, Ginzburg si è sempre opposto con forza anche a quell’antipositivismo storiografico che si è affermato in ambito anglofono negli ultimi decenni del Novecento, e che viene di solito definito come svolta retorica, decostruzionista o postmoderna. Questo indirizzo (rappresentato ad esempio da Hayden White) si fonda su un radicale scetticismo verso l’oggettività del sapere storico, e insiste sulla sua dimensione retorica e narrativa, non distinguendolo in linea di principio dal racconto letterario e finzionale.
Da Nietzsche a Aristotele
Ginzburg vi legge una pericolosa rinuncia alle pretese referenziali del discorso storico: in altre parole, all’obiettivo di dire la verità sul passato e all’idea che sulla strada di questa verità possiamo valerci di «prove» in qualche modo oggettive. Non si tratta per lui solo di un astratto principio. Negli anni Novanta si è occupato fra l’altro del problema della rappresentazione della Shoah e del contrasto al negazionismo; e ha pubblicato la sua ricostruzione del processo a Adriano Sofri , nel volume Il giudice e lo storico. Su questi terreni, la possibilità di distinguere la verità dalla finzione e dall’inganno, dunque la possibilità per la storia di rappresentare uno strumento di testimonianza etica e di giustizia sociale, è affidata a un solido concetto di prova.
È un tema, questo, sviluppato in modo più sistematico nel volume Rapporti di forza: storia, retorica, prova: una raccolta di saggi uscita in italiano nel 1998, poi in edizione ampliata nel 2000, tradotta in molte lingue e ristampata oggi da Quodlibet (pp. 172, euro 18,00). Lo scetticismo della svolta retorica è ricondotto da Ginzburg al pensiero di Nietzsche, in particolare al suo breve scritto «Sulla verità e la menzogna in senso extra-morale», che tratta la verità come «un mobile esercito di metafore», ovvero come il sottoprodotto di relazioni di potere retoricamente forgiate. È questo il nucleo del decostruzionismo e degli orientamenti poststrutturalisti, a partire da quello di Foucault. Naturalmente, Ginzburg non predica affatto il ritorno a una visione «neutrale» e positivista dei fatti: ma si chiede se sia possibile mantenere una consapevolezza del carattere retoricamente costruito della conoscenza, unendola però a un concetto di prova che la agganci in modo referenziale alla realtà oggettiva. La risposta che propone consiste nel rivendicare un concetto di «retorica» diverso da quello di Nietzsche e dei suoi diversi nipotini. Per i quali, nella tradizione sofista e ciceroniana, la retorica è un’arte di convincimento e persuasione che fa perno sull’emotività di chi ascolta, del tutto svincolata dalla corrispondenza al reale.
A ciò si può contrapporre una concezione aristotelica della retorica come forma pratica di conoscenza, fondata su un nocciolo razionale che consiste appunto nella «prova» – in una accezione di questo termine che include i suoi molti significati, come quelli espressi dalle parole inglesi proof (dimostrazione) e evidence (riferimento ai dati empirici), ma anche nel senso del «tentare», del procedere per tentativi ed errori, confrontandosi comunque con una realtà indipendente dal soggetto. Si delinea dunque per la storia una forma di conoscenza diversa sia da quella scientifica che da quella sapienziale, volta al conseguimento di «verità probabili», che devono essere costantemente sottoposte all’indagine e all’interpretazione. La consapevolezza del nesso fra sapere e potere non può risolversi nella riduzione del primo al secondo; al contrario, studiare i «rapporti di forza» che stanno dietro la produzione delle fonti (e delle narrazioni storiche) dovrebbe spingerci a leggerle «contropelo», secondo la famosa espressione di Benjamin. Per questo c’è bisogno di potersi appellare a una «verità» che sia al di là della logica del potere.
Un simile programma è articolato nei saggi molto diversi che compongono il volume: al primo che si focalizza su Nietzsche e Aristotele ne fanno seguito altri dedicati alla rilettura del famoso testo di Lorenzo Valla sulla donazione di Costantino, considerato il prototipo della critica delle fonti; a un testo francese del 1700 su una rivolta indigena nelle Isole Marianne; alla poetica degli «spazi bianchi» nell’opera di Flaubert; al rapporto di Picasso con l’arte africana. Temi eterogenei, che affrontano specialismi disciplinari diversi, e che sono per Ginzburg il campo di prova del suo virtuosismo filologico e di un expertise intellettuale a vastissimo raggio. Ciò che hanno in comune scritti così diversi è il modo di interrogare le fonti, secondo una logica costruita su congetture e confutazioni che trova alimento in accostamenti comparativi spesso sorprendenti ed affascinanti. Con il rischio, semmai, che l’eccessivo virtuosismo, come accade in certe esecuzioni musicali, faccia perdere di vista al lettore distratto la complessiva architettura epistemologica del libro.
Attualità rivisitata
A oltre vent’anni dalla prima edizione, è lecito chiedersi se Rapporti di forza conservi una sua attualità. Senz’altro sì, anche se gli obiettivi critici andrebbero rimodulati rispetto al contesto attuale della storiografia e degli studi sociali. Negli anni Novanta, Ginzburg identificava i problemi del postmodernismo nel suo scetticismo o relativismo epistemologico, nella sostituzione dei fatti con le interpretazioni e, si potrebbe dire, della politica con la retorica. Oggi la visione nietzschiana che riduce il sapere al potere ha assunto una diversa fisionomia: non più scetticismo e neppure più retorica, ma una teoria fin troppo forte dei rapporti di forza: spesso letti in termini di egemonia di identità sociali essenzializzate (bianchi/neri, uomini/donne, etero/Lgbtq), che produrrebbero conoscenza o cultura solo in funzione del sostegno al loro dominio (oppure come resistenza alla loro oppressione).
Al mito della neutralità della scienza si è sostituito quello di un sapere «situato», da valutare solo per il suo significato ideologico e privo dunque di ogni possibile oggettività e universalità (qualità che sarebbero mere e interessate pretese del discorso egemonico). Tempi duri dunque per le «prove», per la retorica aristotelica e persino per il paradigma indiziario. Il titolo del libro di Ginzburg potrebbe esser letto oggi, contro le sue intenzioni, come un supporto al catechismo woke: rispetto al quale, invece, recuperare un po’ di vecchio sano scetticismo non sarebbe inutile.
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