È sempre la questione degli aiuti cosiddetti umanitari a occupare la scena politica venezuelana. Ancor più dopo l’annuncio, da parte del presidente dell’Assemblea legislativa Juan Guaidó, che gli aiuti entreranno nel paese il 23 febbraio, cioè precisamente un mese dopo la sua autoproclamazione a presidente ad interim.

COME CIÒ SARÀ POSSIBILE di fronte alla mancanza di autorizzazione da parte del governo Guaidó non lo ha spiegato. Ha invece dichiarato che, da sabato, avrà inizio «il processo di organizzazione» per la loro consegna ai venezuelani e che «sarà la più grande mobilitazione della nostra storia».

Il leader di estrema destra ha anche annunciato che, oltre al centro di raccolta di viveri e medicine a Cúcuta, comincerà a funzionarne un secondo a Roraima, in Brasile, e ha sottolineato che 250 mila persone si sono già iscritte al programma di volontariato lanciato per la distribuzione. «L’assistenza umanitaria passerà, sì o sì – ha assicurato – e l’usurpatore dovrà andarsene, sì o sì».

Grandi polemiche, però, ha suscitato la notizia che a coordinare il gruppo dei volontari è stato scelto Roberto Patiño, dirigente del partito di estrema destra Primero Justicia, vicino al leader golpista Julio Borges e, soprattutto, figlio di Marisa Guinand, figura di spicco delle Empresas Polar, il maggior gruppo di distribuzione di alimenti e bevande del Venezuela. Vale a dire che il responsabile dei volontari impegnati a garantire l’entrata degli aiuti umanitari è il figlio di un’alta funzionaria di una delle imprese maggiormente responsabili di quella scarsità di beni essenziali indicata dall’opposizione come prova dell’esistenza di una crisi umanitaria.

TUTTAVIA DOPO IL RIFIUTO della Croce Rossa a prendere parte a quello che Maduro ha definito come uno show, qualche distinguo arriva anche dalla Caritas del Venezuela, che certo non può essere accusata di simpatie chaviste: evidenziando in un comunicato come l’assistenza umanitaria sia regolata da «protocolli accettati internazionalmente» e «non risponda a interessi politici», l’organizzazione annuncia che offrirà il proprio contributo «solo nel caso si proceda con i meccanismi appropriati e secondo i principi di rispetto dei diritti umani».

A distribuire gli aiuti, al momento, e proprio sul ponte Las Tienditas bloccato dai container (e mai inaugurato per responsabilità colombiana), sono in realtà le autorità bolivariane: 70 tonnellate di alimenti e medicine che vengono consegnate regolarmente a 6mila famiglie della regione di frontiera.

QUANTO ALLA RICERCA di una soluzione negoziata, anche papa Francesco evidenzia lo stallo in atto, come emerge dalla sua lettera di risposta alla richiesta di mediazione avanzata da Maduro, il cui contenuto è stato rivelato ieri dal Corriere della Sera. Una lettera prudentissima, in cui il papa evita a tal punto di prendere posizione da rivolgersi a Maduro chiamandolo non presidente, ma «Eccelentissimo signore». Senza cedere però, neppure questa volta, alle pressioni di un episcopato schierato con l’opposizione golpista fin dall’avvento di Chávez.

NELLA LETTERA IL PAPA richiama i precedenti e ripetuti tentativi di mediazione compiuti dalla Santa Sede e interrottisi tutti «perché quanto era stato concordato nelle riunioni non è stato seguito da gesti concreti». Ma è assai difficile che egli voglia dare la colpa al solo governo, dal momento che, già nel 2017, commentando, di ritorno dall’Egitto, il fallimento dell’ultimo negoziato condotto nella Repubblica Dominicana, aveva detto: «Parte dell’opposizione non vuole il dialogo».

Ricordando poi come in passato la Santa Sede avesse già avanzato «una serie di richieste che considerava indispensabili affinché il dialogo si sviluppasse in maniera proficua e efficace», il papa ribadisce l’estrema necessità di quelle condizioni, insieme ad «altre che da allora si sono aggiunte come conseguenza dell’evoluzione della situazione». Accanto, naturalmente, all’esigenza che «si eviti qualunque forma di spargimento di sangue».