«Un’opportunità di fare qualcosa di grande che capita una volta in una generazione»: così Gary Cohn, capo del Consiglio economico nazionale di Trump, aveva definito la manovra fiscale, ma l’ambiziosa e spregiudicata riforma non ha convinto le borse, a cominciare da Wall Street che ha chiuso in ribasso, scendendo man mano che il piano fiscale di Trump emergeva.

«Pur offrendo una guida a ciò che la Casa Bianca vuole fare, la mancanza di dettagli ha contribuito ad una debolezza dei mercati – ha affermato Nicholas Colas, stratega principale di Convergex, una delle più grandi agenzie di servizi di intermediazione e trading – La proposta richiede una pausa fiscale unica per trilioni di dollari detenuti all’estero, ma non specifica il tasso. Il mercato stava cercando dettagli più specifici su tassi e riduzione delle esenzioni, ma i dettagli sulla tassa di rimpatrio, che è la questione più importante, non sono stati presentati».

La presentazione della più grande riforma fiscale americana è più uno spot diretto alla base di Trump che un vero piano, facilmente decostruibile per gli economisti che ne hanno visto tutte le falle: non è assolutamente chiaro come le casse americane rientreranno dei tagli alle tasse.

«Chiamare questa riforma un piano fiscale è utilizzare un termine generoso», ha detto Bill De Blasio, sindaco di New York, e di questo parere sono molti politici democratici con i quali Trump ancora una volta è in guerra aperta, dopo che per qualche ora pareva stesse ammorbidito la propria linea in favore di una politica di larghe intese, in modo da evitare uno shutdown, un blocco dei lavori del Congresso.

Trump ha scatenato un tweetstorm contro i democratici accusandoli di tentare di chiudere i parchi nazionali e compromettere la sicurezza delle truppe statunitensi, solo perché si impuntano nel voler fornire agli americani un’assistenza sanitaria.

«I democratici mettono in pericolo la sicurezza delle nostre truppe per salvare i loro donatori delle compagnie di assicurazione», ha twittato.

Anche se i repubblicani controllano le camere del Congresso e la Casa Bianca, l’amministrazione Trump sta realizzando che i democratici mantengono una notevole leva finanziaria e i loro voti sono necessari per il passaggio di leggi fondamentali come il bilancio.

Si stava cercando di far lavorare Camera e Senato prendendo tempo per risolvere le differenze in modo da evitare uno shutdown proprio nei primi 100 giorni di amministrazione ed i colloqui tra repubblicani e democratici (dopo che la Casa Bianca aveva rinunciato ad abbandonare gli americani a basso reddito nel pagamento delle spese mediche e a soprassedere sul progetto del muro con il Messico) stavano progredendo in modo relativamente regolare. Il fuoco di fila di tweet ha un po’ gelato l’ambiente.

Altro volta faccia ma in direzione opposta, è avvenuto sul Nafta, l’Accordo nordamericano per il libero scambio che coinvolge Usa Canada e Messico: poche ore dopo aver annunciato un decreto per far uscire gli Stati Uniti dal patto, come promesso in campagna elettorale, Trump ha detto che, a seguito di un «piacevole e produttivo scambio di telefonate» con i leader di Messico e Canada, non porrà immediatamente fine all’accordo. Vuole una rinegoziazione.

Dietro il dietrofront pare ci sia stata una lotta di influenze sul presidente: il gruppo che fa capo a Steve Bannon e all’economista Peter Navarro cancellerebbe volentieri il Nafta, mentre il gruppo che ha prevalso e che include Cohn è per un approccio più cauto, preoccupato che passi più grandi di una rinegoziazione possano causare tracolli economici.