Maestro della prosa breve, erede di Tolstoj per sontuosa e vibrata sintassi, Ivan Bunin rappresenta una linea, ormai marginale nel primo Novecento, di potenziale continuità e affinamento della lezione dei grandi classici russi. Uscito da poco, Il signore di San Francisco e altri racconti (eccellente traduzione di Claudia Zonghetti, pp.244, € 20,00) è una ampia scelta dei suoi testi degli anni prerivoluzionari (1911-16), con cui Bunin si è presentato al pubblico occidentale subito dopo l’emigrazione. Sorprendente l’intensità di toni e tinte del flusso narrativo, capace, serpentescamente, di scivolare da un punto focale all’altro ingannando le attese e dissimulando la tensione, precipitando all’acme e, in molti casi, proseguendo in una lunghissima e densa scia pagine e pagine dopo la catastrofe. Il magistrale racconto eponimo segue il protagonista in un pacchiano agiatissimo grand tour atlantico-campano senza darci accesso per un istante alla sua interiorità, se non in un sogno, mentre sui mari dei tropici il cane cinese dei Sogni di Chang interiorizza la visione dello squinternato capitano russo. Amore e morte il tema dominante, in raffinate e imprevedibili variazioni (con la delizia postumo-bibliofila della Grammatica dell’amore), poi un variopinto, madido mondo coloniale, con tangibili seduzioni buddiste, e infine, ma cronologicamente all’inizio, la torva terrea animalesca Russia contadina con cui aveva esordito nel decennio precedente.