Massimo Pigliucci è nato 54 anni fa in Liberia, è cresciuto a Roma e da molti anni insegna negli Stati Uniti. Oggi ha una cattedra di filosofia alla City University di New York. Ma per i primi venticinque anni di carriera ha lavorato nel settore della biologia evolutiva nelle università del Connecticut, del Tennessee e a New York.
Pigliucci è popolare anche fuori dall’accademia, grazie al suo blog Rationally speaking, dedicato soprattutto al tema del pensiero critico e del contrasto alle pseudoscienze. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia si intitola Come essere stoici. Riscoprire la spiritualità degli antichi per vivere una vita moderna (Garzanti, trad. di Paolo Lucca). Invitato dal Cicap Fest di Padova, la kermesse del Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sulle pseudoscienze, dedicherà il suo intervento (oggi, via skype) proprio alla demarcazione tra scienza e pseudo-scienza cui ha dedicato gran parte della sua ricerca.

Si può confidare nell’esistenza di una linea di confine netta?
È un tema a cui hanno lavorato anche filosofi come Popper, finché negli anni ’80 Larry Laudan ha convinto un po’ tutti che il problema non ha soluzione. Così i filosofi, sbagliando, hanno abbandonato la questione. Nel 2013, con Maarten Boudry abbiamo invitato i filosofi della scienza a tornare sulla questione e abbiamo raccolto le risposte in un libro intitolato Philosophy of pseudoscience. Reconsidering the demarcation problem (University of Chicago Press). Per riassumerle: una frontiera netta non c’è. Sugli estremi, come il Creazionismo da un lato e la meccanica quantistica dall’altro, siamo tutti d’accordo. In mezzo, c’è una zona grigia. Perché una teoria sia pseudo-scientifica non basta che sia sbagliata: l’errore fa parte della scienza. Prima o poi, ogni teoria viene superata da un’altra più efficace. Ma se intorno a una teoria sbagliata si prosegue a organizzare ricerche, conferenze, articoli, allora siamo di fronte a una pseudo-scienza.

Se neanche gli esperti ci riescono, come possono i  non-esperti orientarsi tra verità e bufale?
Non si può essere dei conoscitori a tutto campo e non si può pretendere che i cittadini sappiano sempre distinguere le teorie scientifiche dalle fake news. Però ci sono alcuni studiosi di cui ci si può fidare, sapendo che anche gli scienziati a volte sbagliano. Se ci si rompe la macchina la portiamo del meccanico e gliela affidiamo, pur se non è necessariamente onesto o infallibile. Invece, degli scienziati non ci fidiamo. È un paradosso.

Mentre gli specialisti devono discutere sulla base dei dati, dunque, gli altri devono capire di chi fidarsi, anche a rischio di trascurare qualche «genio incompreso»…
Esistono diversi strumenti per capire a chi dare credito o meno. Il filosofo Alvin Goldman nel 2001 ha elencato cinque criteri per misurare l’affidabilità di un esperto, basati su come le sue idee sono accolte dai colleghi, i suoi titoli e i suoi interessi. Si tratta di un metodo utile. Negli Usa ci sono appelli di «esperti» che negano la responsabilità dell’uomo del mutamento climatico: i criteri di Goldman basterebbero a far comprendere che non si tratta di specialisti affidabili.

Molti oggi criticano chi sostiene lo slogan «la scienza non è democratica». Ma non è chiaro con cosa sostituirlo. Come si conquista la fiducia con la divulgazione?
È un problema che aveva già messo a fuoco Aristotele: un’idea convincente ha bisogno di «logos», «ethos» e «pathos». Gli scienziati si basano solo sul «logos», cioè sulla teoria e sui dati. È necessario, ma non sufficiente. Occorre anche l’«ethos», cioè dare l’impressione di parlare nell’interesse di chi ascolta. Trattare il pubblico con superiorità, in questo senso, non funziona. Gli scienziati, poi, mancano soprattutto di «pathos», cioè della capacità di toccare chi ascolta o legge a livello emotivo. Soprattutto su tematiche socialmente rilevanti, come vaccini e migrazioni…

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Al Cicap Fest lei affronta il pericolo dello «scientismo». Visto tutto ciò che ha sostenuto fin qui, non c’è il rischio del problema opposto?
In primo luogo, è una questione di onestà intellettuale. Ad esempio, c’è chi sostiene che la scienza risolverà anche le questioni morali, e questo non è vero. Poi esiste un problema più concreto: usare la scienza come arma ideologica fa male alla reputazione della scienza stessa. Un esempio: io sono ateo, e faccio parte degli scettici razionalisti. Però utilizzare la scienza per dimostrare che Dio non esiste, come fanno Richard Dawkins e altri, secondo me è scientista. Rischia di allontanare il pubblico già ostile. E qui torniamo alla fiducia.

Secondo Richard Feynman, «la filosofia della scienza serve agli scienziati come l’ornitologia agli uccelli». Aveva torto?
Potrei rispondere che senza ornitologia molti uccelli sarebbero estinti… In realtà anche Feynman ha fatto filosofia della scienza. Lo stesso Stephen Hawking sosteneva che la filosofia non serve più, ma poi ha pubblicato un libro di filosofia della astronomia. In Italia, il fisico Carlo Rovelli scrive cose molto interessanti sulla filosofia della scienza. Ma in parte Feynman ha ragione, perché la filosofia della scienza non è una scienza: serve a completare la sociologia e la storia della scienza nello spiegare come funziona e, soprattutto, come fallisce la scienza stessa.
Filosofi e scienziati hanno collaborato soprattutto nei campi al limite della verificabilità empirica, come la teoria delle stringhe. Qualche anno fa sono stato invitato a Monaco per tenere una conferenza sulla teoria delle stringhe. Al momento, pensai che gli organizzatori avessero sbagliato indirizzo. Invece cercavano proprio un esperto sul tema della demarcazione, perché i fisici stavano litigando su Popper, scienza e pseudo-scienza ma di filosofia della scienza non sapevano granché. Così i fisici, premi Nobel compresi, vennero ad ascoltare la mia lezione introduttiva su Popper.

Lei sostiene di aver avuto una «costruttiva crisi di mezz’età». Cosa è accaduto?
Avevo quarant’anni e una cattedra di biologia evolutiva all’università di Knoxville, Tennessee. Il laboratorio andava bene, arrivavano pubblicazioni, premi, finanziamenti e ricercatori. Ma avevo l’impressione di compiere sempre le stesse ricerche. Succede a molti. In genere, ci si guarda intorno in cerca di nuovi stimoli nei campi limitrofi. Ma in biologia molecolare avevo preso un dottorato in Italia, per cui non sarebbe stata una novità. Arrivò a Knoxville un giovane filosofo, Jonathan Kaplan. Mi chiese informazioni sull’interazione tra geni e ambiente. Diventammo amici e iniziammo a pubblicare insieme. Mi divertivo, così ho deciso di tornare a scuola: con il permesso del mio ateneo, mentre guidavo il laboratorio ho preso un dottorato in filosofia, e Jonathan fu il relatore. Oggi, da quasi dieci anni, insegno filosofia alla City University di New York. La libertà accademica delle università americane mi ha aiutato.

Crispr e le nuove scoperte della genetica sollevano di nuovo questioni filosofiche, dall’eugenetica al determinismo genetico. Non è il momento di tornare a occuparsi di biologia?
Ora me ne occupo da filosofo. Le nuove biotecnologie ci rimettono davanti la necessità di un dibattito pubblico. Occorre capire la complessità dei meccanismi evolutivi, che vanno molto oltre i geni. Rispetto al passato, diversi scienziati ne sono consapevoli. Ma non per tutti è così. Quando il dibattito coinvolge il grande pubblico, può tornare la voglia di semplificare eccessivamente i problemi.