L’ultima volta che Léon Bloy (1846-1917) mise a rumore la cultura italiana fu nel 1995 in occasione dell’uscita da Adelphi del libello intitolato Dagli ebrei la salvezza (1892), il cui violento antisemitismo, o per meglio dire antigiudaismo di impronta cristiana, sostiene che il deicidio è la scelta obbligata di un popolo rappresentato in esclusiva da Giuda il traditore e da Pietro l’apostata. Nel suo stile vocato all’iperbole Léon Bloy, che non è tuttavia né Drumont né un Céline in anticipo, amplifica all’eccesso un pregiudizio odioso ma purtroppo molto diffuso e condiviso nell’imminenza dell’affaire Dreyfus anche da un conclamato progressista della Terza Repubblica quale André Gide: come torna a spiegare uno dei suoi massimi studiosi, Giuliano Vigini, in un sintetico ma molto utile profilo (Il grande inquisitore Léon Bloy, Medusa «Le porpore», pp. 165, € 18,50) che muove dalla penosa vicenda biografica di uno scrittore autodidatta, convertitosi al cattolicesimo intorno ai venticinque anni, soldato nella guerra franco-prussiana, titolare di una bibliografia sterminata (articoli di giornale, saggi, romanzi, pagine di diario) qualitativamente molto varia e diseguale, sempre afflitto da assillanti problemi economici e infine spentosi nella indigenza più nera.

Nemico giurato del razionalismo cartesiano, della borghesia dei Lumi come dello scientismo positivista, Bloy non ha nulla degli atei devoti à la Maurras che costellano la letteratura francese del secolo, perché la verità sostanziale del suo credo, il suo Assoluto in senso letterale, corrisponde al dolore degli esseri umani e cioè al fisico patimento che ogni giorno, degna di ogni benedizione, arreca loro la povertà. E il dolore, ai suoi occhi, non solo è utile ma è necessario. Da questo nucleo elementare si dirama una produzione che la monografia di Vigini distingue per generi: da un lato c’è la narrativa, di forte impronta autobiografica, dove si segnalano Il disperato (1887) e La donna povera (1897), due vicende di caduta nella débauche e di successiva redenzione; dall’altro la saggistica, che volentieri prende a pretesto i fatti della storia per rileggerli alla luce di una personalissima simbologia cristiana: è il caso, dedicato a Maria Antonietta d’Austria, di La Cavaliera della morte (1896, da Adelphi nell’ottima traduzione di Nicola Muschitiello) e specialmente del testo dove lo scrittore dice di sentirsi Champollion redivivo ma alle prese con dei geroglifici divini, L’anima di Napoleone (1912), tuttora da Medusa nella storica versione di quel Bloy provinciale e in formato sedicesimo che fu Domenico Giuliotti; infine la corrispondenza e una fluviale produzione diaristica in cui spicca Il pellegrino dell’assoluto: diari 1892-1917, opera di un mistico nella cui meditazione ricorrono i nomi di Caterina da Siena, Angela da Foligno e i passi più sottolineati della Imitazione di Cristo.

Per parte sua Bloy li immette nella centrifuga di uno stile estremista e violento, prezioso e insieme populacier come attesta il ricco lessico d’autore che Vigini colloca in appendice alla sua monografia. Né va dimenticato in proposito che a firma del grande Albert Béguin si intitola Léon Bloy l’impaziente (Edizioni di Comunità 1946) la gemma di una bibliografia critica dove spiccano le testimonianze di Raissa e Jacques Maritain e i ricordi di un artista che ne commemora, specie nella grafica del Miserere (’48), i neri bitumosi e certe carni livide, quel Georges Rouault cui Bloy rimproverava paradossalmente l’attrazione per il sordido e la miseria.

Potrà stupire ma un lettore entusiasta di Léon Bloy fu Walter Benjamin, che così da Capri, il 16 settembre del ’24, all’amico Gershom Scholem (ora in Lettere 1913-1940, Einaudi 1978), scrive di avere comprato a Napoli diversi volumi fra cui «la splendida» Exégèse des lieux communs, in due volumi, di Léon Bloy: «forse non è mai stata scritta una critica, o meglio una satira, contro la borghesia più aspra di questo commento delle sue locuzioni». E di tale Exégèse, capolavoro risalente in doppia mandata al 1902 e al 1912, torna adesso in libreria una scelta dal titolo redazionale, Anatomia del borghese (introduzione di Vittorio Dini, Edizioni e/o, «Collana di pensiero radicale», pp. 164, € 10,00), nella versione impeccabile di Sandra Teroni. Si tratta di una fenomenologia per lemmi che rinviano, in forma di apologo oppure di riflessione, agli stereotipi della borghesia secolare i quali si riassumono nella ubiquità e nel predominio del denaro (e notare che un altro suo giovane benché filosemita estimatore, Charles Péguy, scrive già nel ’13 il libello L’argent). Ecco dal dodicesimo capitolo, Gli affari sono affari (e qui notare anche che in Le bourgeois revenant, uno dei più penetranti fra i Minima moralia, Adorno dice più o meno le stesse cose…): «Fra tutti i luoghi comuni, solitamente così rispettabili e severi, penso che questo sia il più serio, il più augusto. È l’ombelico dei Luoghi Comuni, la parola culminante del secolo. (…) Essere in Affari significa essere nell’Assoluto. Un uomo d’affari è uno stilita che non scende mai dalla colonna. Non deve avere pensieri, sentimenti, occhi, orecchi, naso, gusto, tatto e stomaco se non per gli Affari. (…) È impossibile dire con esattezza cosa sono gli Affari. (…) Gli Affari sono Affari come Dio è Dio, cioè fuori da tutto. Gli Affari sono l’Inesplicabile, l’Indimostrabile, l’Incircoscritto».

Certe volte i reazionari sanno vedere cose che i rivoluzionari non vedono se, nella lettera al suo amico, Benjamin si domanda quale sia mai il profilo ideologico di Bloy. Si potrebbe dire che il suo è un caso di anti-illuminismo (in un passaggio definisce Voltaire «orifizio escremenziale della borghesia») ovvero di anticapitalismo romantico e di critica radicale dell’ethos borghese, di nostalgia di un mondo chiuso e protettivo o comunque di grave sospetto per la forma-denaro: posizione, questa, passibile di molti e differenti esiti, per esempio i successivi vaneggiamenti di Ezra Pound riguardo all’usura. Léon Bloy non pensa a niente di tutto ciò ma vagheggia viceversa il comunismo della povertà integrale. Il suo testo onnipresente è il Vangelo, tenuto a debita distanza sia dalle encicliche vaticane sia dai fogli modernisti, il suo luogo di meditazione e di decantazione mistica non è certo Lourdes ma il più periferico sito di Nostra Signora di La Salette, dove una foto presa da lontano lo ritrae in preghiera, infagottato nei suoi eterni cenci. Pregare e maledire per lui si equivalevano includendo nell’elenco dei nemici (gli altri, i borghesi, virtualmente tutto il genere umano) i reprobi da convertire e perciò da educare al cilicio di una vita trascorsa in miseria.

Oltre all’iperbole, la figura elettiva del linguaggio di Bloy è l’apostrofe, non tanto l’affondo o l’insulto di cui pure ridondano i suoi scritti, quanto il semplice capo di accusa, la chiamata nominativa. Sono epiteti spregevoli, appellativi infamanti, ingiurie che sembrano scritte per allontanare il lettore, per saziarlo e nausearlo: mediamente, del suo stile si potrebbe ribadire quello che, per altra via, disse ancora Benjamin ricordando una sveglia che suonava per sessanta secondi ogni minuto. Dunque bisogna inoltrarsi oltre la cappa di un silenzio molto fragoroso per coglierne il profilo più riposto e vulnerabile, quello – ci ricorda Vigini – «di stilita del dolore e della povertà».