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Bis-trattati

Bis-trattatiIllustrazione tratta da "Miss Galassia" di Stefano Benni della disegnatrice catalana Luci Gutiérrez (Orecchio acerbo, 2013), nella foto piccola Werner Raza

Intervista a Werner Raza Il Ttip, il Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti, è il patto che gli Usa impongono ai paesi Ue. Ma la partita è ancora in corso, con partiti, sindacati, movimenti che si oppongono e rifiutano la schiavitù economica. Ne parliamo con il direttore dell’Öfse

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 17 ottobre 2014

La maggiore parte degli studi sul Ttip, commissionati perlopiù dai governi e dalla Commissione europea, presentano il trattato di libero commercio Usa-Ue come una manna dal cielo per le asfittiche economie europee.

Secondo il Centre for Economic Policy Research di Londra (Cepr), il Ttip «regalerebbe» 545 euro a ogni famiglia europea. E poi: più crescita, più esportazioni, più occupazione, meno «lacci e lacciuoli».

Il messaggio è chiaro: col Ttip ci lasceremmo finalmente la crisi alle spalle.
Diametralmente opposta, invece, è l’analisi del più recente studio finora realizzato sul Ttip, a cura dell’Öfse, uno dei più autorevoli centri di ricerca austriaci.

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Secondo il rapporto dell’istituto viennese, tutti gli studi pro-Ttip presentano gravi omissioni ed errori metodologici che enfatizzano i presunti benefici dell’accordo, ignorandone invece i rischi. Ne abbiamo parlato con Werner Raza, direttore dell’Öfse.

 

Può riassumerci in breve le conclusioni dello studio sull’impatto del Ttip che avete realizzato per l’Öfse? Sono in linea con quelle dei vari studi «ufficiali»?

Per quanto riguarda i presunti benefici economici dell’accordo, c’è da dire che anche gli studio pro-Ttip prevedono un impatto molto esiguo in termini di Pil e crescita: circa l’1% nel corso di un periodo di 10-20 anni.

La nostra analisi conferma queste stime. Quindi non sarà di certo il Ttip a portare l’Ue fuori dalla crisi. Il punto importante da capire, però, è che le barriere tariffarie tra Ue ed Usa sono già molto basse.

Dunque questo «guadagno», già misero di suo, sarà ottenuto perlopiù per mezzo dell’eliminazione delle cosiddette «barriere non tariffarie»: sarebbe a dire quell’insieme di norme, regole e standard che riguardano la salute pubblica, la protezione ambientale e sociale, i diritti dei consumatori, ecc.

Questo avrebbe un costo sociale molto alto. E comunque, anche da un punto di vista economico ed occupazionale, i costi saranno rilevanti, soprattutto in termini di riduzione delle entrate pubbliche: considerando che l’accordo porterà quasi sicuramente all’eliminazione di quelle poche barriere tariffarie rimanenti, il bilancio europeo – già ridotto allo stremo – si vedrà privato di altri 2-4 miliardi di euro l’anno, che saranno probabilmente compensati da ulteriori tagli alle spese. In altre parole: maggiore austerità. Infine, un punto totalmente sottaciuto dagli altri studi è l’impatto negativo che il Ttip, privilegiando gli scambi Usa-Ue, avrà sulle esportazioni dei paesi meni sviluppati e sul commercio intra-europeo, con gravi conseguenze per il processo di integrazione europeo.

Quali sono gli aspetti più problematici del Ttip dal suo punto di vista?

L’aspetto più critico dell’accordo è senz’altro l’Isds, il meccanismo di risoluzione dei contenziosi tra investitori e stati, che permette agli investitori privati di trascinare i governi di fronte a un tribunale sovranazionale se ritengono che una certa legge nuoccia ai loro interessi. L’Isds equivale di fatto a una privatizzazione del diritto internazionale e rappresenta un vero e proprio affronto alla democrazia. La storia dimostra che questi tribunali tendono a privilegiare gli interessi degli investitori rispetto a quelli della collettività. Considerando che le imprese europee e statunitensi sono quelle che ricorrono con maggiore assiduità a questi meccanismi, laddove esistono già (per esempio negli accordi di libero commercio con i paesi in via di sviluppo), l’abilità dei governi Ue di varare leggi in difesa dell’interesse pubblico verrebbe seriamente limitata. Anche se il governo austriaco e tedesco hanno recentemente espresso delle riserve nei confronti dell’Isds, la Commissione ha ribadito di considerarlo un punto chiave dell’accordo. L’altro aspetto problematico del Ttip è quella che viene chiamata «cooperazione normativa», attraverso cui la discussione sulle norme regolatorie verrebbe trasferita dalle istituzione democratiche ad una serie di organi tecnocratici, offrendo alle grandi imprese, su entrambe le sponde dell’Atlantico, un’enorme influenza sul procedimento legislativo.

Il vostro studio mette in luce un altro aspetto fondamentale, ossia che parlare di un impatto positivo per l’Europa nel suo insieme in termini di crescita ed aumento delle esportazioni è fuorviante, poiché saranno soprattutto alcuni paesi a beneficiare dell’accordo, a scapito di altri.

Assolutamente. In generale è prevedibile che il Ttip beneficerà soprattutto le economie export-oriented specializzate in prodotti ad alta qualità e ad alta intensità di capitale, come la Germania, l’Olanda e la Svezia, e quelle che possiedono settori terziari altamente internazionalizzati, come il Regno Unito, a scapito di paesi specializzati in industrie ad alta intensità energetica e di manodopera, e nella produzione agricola. È per questo che paesi come la Germania e il Regno Unito sono tra i più attivi propugnatori dell’accordo. Detto questo, la spinta principale a favore del Ttip non viene tanto dai governi quanto dalle grandi imprese transnazionali, sia in Europea che negli Stati Uniti.

Che legame c’è tra il Ttip è le politiche di austerità e di svalutazione interna attualmente imposte dall’establishment europeo ai paesi dell’eurozona, e in particolare a quelli della periferia (vedi l’Italia)?

Un legame molto stretto: il Ttip è un tassello fondamentale della strategia «Global Europe» della Commissione europea, che sottolinea la necessità di rendere l’Ue più «competitiva« sui mercati internazionali e punta ad imporre a tutta l’Unione, e in particolare all’eurozona, un modello strettamente neomercantilista in cui la crescita è trainata in primo luogo dalle esportazioni (sulla base del modello tedesco). Va da sé che considero questa approccio fondamentalmente sbagliato. L’Ue dovrebbe cercare di stimolare la domanda interna per mezzo di investimenti pubblici mirati a facilitare la trasformazione socio-ecologica delle nostre economie e di politiche redistributive che contrastino il progressivo impoverimento della popolazione, soprattutto nei paesi del Sud e dell’Est Europa.

Molti hanno teorizzato che l’obiettivo reale delle attuali politiche di austerità sia quello di smantellare definitivamente le ultime vestigia del cosiddetto “modello sociale europeo”. Lei è d’accordo, e se sì, il Ttip può considerarsi parte integrante di questa strategia?

Sì, mi pare un’analisi sostanzialmente conforme alla realtà. E dunque, nella misura in cui il modello neomercantilista è strettamente legato alla flessibilizzazione e alla precarizzazione dei mercati del lavoro, alla detassazione delle imprese e alla compressione dei salari in quanto elementi chiave delle cosiddette «riforme strutturali», direi che c’è un chiaro legame tra il Ttip e lo smantellamento dello stato sociale a cui abbiamo assistito in questi anni. Il Ttip favorisce e acuisce questo processo alterando ulteriormente l’equilibrio di potere tra le forze sociali e le grandi imprese, ovviamente a favore di queste ultime, e istituzionalizzando definitivamente le riforme neoliberiste introdotte negli ultimi vent’anni, soprattutto in materia di privatizzazione dei servizi pubblici.

 

 

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