Gli americani «devono lasciare l’Ucraina adesso», una guerra potrebbe cominciare in qualsiasi momento e i marine non arriveranno a Kiev per evacuare i civili: «Se cominciassimo a spararci con i russi, sarebbe una guerra mondiale». Con queste parole il capo della Casa Bianca, Joe Biden, ha riportato sull’Europa la prospettiva di uno scontro militare tra grandi potenze.

AL SUO APPELLO SONO seguiti quelli di Giappone e Corea del Sud, che hanno chiesto ai concittadini di lasciare l’Ucraina. E il segretario della Nato Stoltenberg – in Romania ad accogliere truppe Usa alla base di Costanza – ha sottolineato l’alto numero di agenti d’intelligence russi in Ucraina e il «pericolo di un golpe» a Kiev.

Su quali elementi Biden basa l’ennesimo allarme? Visto anche che alle sue parole per l’ennesima volta il governo ucraino con il minisTro degli esteri Kuleba ribadisce: «Non c’è nulla di nuovo in questa dichiarazione di Biden, non è prova di un qualche cambiamento radicale della situazione». Il Cremlino non ha modificato l’assetto delle truppe nel sud-ovest del paese, e ieri, a Mosca, i vertici militari di Usa e Russia hanno avuto un incontro proprio sul tema della sicurezza. È possibile che l’urgenza dipenda in parte dal crollo di Biden nei sondaggi di ieri di popolarità sotto il 40% per la prima volta. Ma è importante tornare allo stato delle trattative. A Berlino sono falliti i colloqui del Formato Normandia con Germania, Francia, Russia e Ucraina. Il gruppo avrebbe dovuto discutere gli accordi di Minsk, secondo il programma stabilito dal presidente francese Macron, nelle visite ai leader di Russia e Ucraina, Vladmir Putin e Volodymyr Zelensky.

Gli accordi prevedono lo status speciale per le Repubbliche di Donetsk e di Lugansk. I due territori sono formalmente autonomi dalla guerra civile del 2014. L’Ucraina li reclama. La Russia li sostiene economicamente e militarmente, senza, però, averli riconosciuti. Giovedì notte, dopo nove ore di confronto, il vertice si è chiuso senza neanche un’interpretazione univoca del testo. Tutto rinviato a marzo. Il negoziatore del Cremlino, Dmitry Kozak, ha accusato gli inviati di Kiev di avere «sabotato» la riunione. Già nel 2019 Zelensky ha dovuto fermare i colloqui di fronte alle accuse di tradimento dell’ultradestra.

ORA I RUSSI POTREBBERO ripiegare su un’alternativa. Secondo Parlamentarskaya Gazeta, la pubblicazione degli organismi federali russi, già martedì il comitato della Duma per gli Affari della Comunità degli Stati indipendenti dovrebbe esaminare una proposta dei comunisti che prevede il riconoscimento di Donetsk e di Lugansk. «Vogliamo creare le basi legali per garantire la sicurezza di quei cittadini», ha detto il presidente del comitato, Leonid Kalashnikov. In caso di parere positivo il testo arriverebbe in Aula il giorno seguente. Putin per adesso ha preso tempo. Ma i colloqui sugli accordi di Minsk si sono fermati e l’ipotesi del riconoscimento rischia di tornare in cima alla sua agenda. Le conseguenze politiche sarebbero enormi.

Per non parlare di quelle materiali. Se l’obiettivo è difendere i cittadini di Donetsk e di Lugansk da un attacco ucraino, allora è lecito pensare che il voto alla Duma arrivi, eventualmente, dopo l’ingresso delle forze armate russe sul territorio delle due regioni ribelli. Una parte dei 130.000 uomini oggi a poche centinaia di chilometri di distanza, oltre un confine che nei fatti già da anni non esiste più, raggiungerebbe in poco tempo la linea del fronte. Non sarebbe l’invasione «su larga scala» anticipata dall’intelligence Usa, ma fornirebbe al governo di Kiev sufficienti ragioni per procedere con una offensiva. «L’Ucraina è pronta a una guerra totale», ha detto il capo del controspionaggio russo, Sergei Naryshkin.

L’AMBASCIATA AMERICANA a Kiev ha pubblicato sui suoi profili social le fotografie dell’ultimo carico di armi trasferite agli ucraini. «In un mese abbiamo consegnato 1.200 tonnellate di aiuti militari», dice il messaggio della sede diplomatica. Esiste anche un problema legato alla progressiva militarizzazione della società e di nuovi ruoli militari. Ruoli che dovrebbero restare nei ristretti ranghi delle forze armate passano ai civili, com’era accaduto in Cecenia quando la regione era governata dalla multinazionale del terrore islamista. Non è chiaro che cosa possa venire da questa tendenza, al di là di un’ulteriore spinta ai nazionalisti, che hanno già sufficiente combustibile a disposizione.

Oggi pomeriggio nel parco dedicato al poeta Taras Shevchenko, nel centro di Kiev, il Movimento per la resistenza alla capitolazione, di estrema destra, conosciuto con la sigla Rok, ha convocato un grande raduno. Il messaggio sembrerebbe rivolto al Cremlino. A ben vedere, però, riguarda soprattutto Zelensky. «Se la Russia avanza, potrebbe crollare del tutto», è scritto nel documento diffuso dal gruppo: «Non dobbiamo fare alcuna concessione. Gli accordi di Minsk rappresentano una vittoria per la Russia e una catastrofe per l’Ucraina».