Alle 5 del pomeriggio quella che invade il terzo piano del palazzo dei gruppi parlamentari è una processione, una dolorosa transumanza verso l’aula Berlinguer. Dovrebbe essere la riunione della minoranza Pd convocata da Andrea Giorgis e Enzo Lattuca per fare il punto sulle riforme. Ci sono tutti, anche qualcuno di più: i ’duri’ Bersani, Cuperlo, Bindi, Boccia. I riformisti trattativisti Speranza, Stumpo. L’ex lettiano ora renziano Francesco Russo. Il sottosegretario Pizzetti. «Siamo alla riunione della minoranza, c’è pure la maggioranza» ironizza Pippo Civati. C’è chi ci va più pesante: «Ci sono anche i controllori di Renzi».

L’atmosfera è tesa. Se nel Pd si scavano ormai differenze profonde, anche fra i dissidenti ormai ci sono fossati. Al senato gli emendamenti di Miguel Gotor hanno raccolto 27 voti, quelli che ci si aspettava. Ma alla camera contro l’emendamento che ripristinava i senatori di nomina del Colle solo Civati è rimasto in aula a votare no, in 60 sono usciti. La minoranza è confusa, la strategia fa acqua. Parlano D’Attorre, Fassina, Gotor, Corsini. Tutti tendenti al pessimismo sul futuro del Pd renziano. Prende la parola anche Cuperlo: parla di «mutazione genetica del Pd», di «difesa della democrazia», racconta la storia del cane Balto, cartone animato di grande successo fra i pupi: è la vicenda di un cane da slitta che negli anni 20 in Alaska trasporta un farmaco in una cittadina colpita da un’epidemia. Storia lacrimosa, però finisce bene. Ma chi è Balto? Chi guiderà la battaglia, forse quella finale, per non consentire a Renzi imporre al paese un capo dello stato scelto in nome del patto del Nazareno? Ma può essere un interrogativo fuori tempo: in quegli stessi minuti il forzista Romani dichiara che ormai Renzi non governa senza i voti azzurri, «la maggioranza cambiata».

Bersani, che in questi giorni ha alzato la voce contro il segretario, va via subito. Poi attraverso i cronisti manda un avviso. «Renzi sa benissimo che sulla legge elettorale c’era una possibile mediazione e non ha voluto mediare. Ora spetta a lui dire se si deve partire dall’unità del Pd». È una maniera light di parlare del rischio di scissione e di riversarne la responsabilità sul segretario. Renzi, da Davos, però ha appena spiegato di non essere preoccupato: «Quella di una parte della minoranza Pd sull’Italicum è una posizione che non condivido e non credo la condividano neanche i militanti delle feste dell’Unità, anche quelli che non hanno votato per me».

Davide Zoggia è fra i più scettici: «Renzi ha già deciso il nome del candidato per il Quirinale con Berlusconi». E ora alla minoranza toccherà l’ennesimo atto di obbedienza. Speranza, capogruppo dei deputati, nega: «Ho fiducia nel segretario, lavorerà per unire il Pd». Le diversità sono evidenti. «Sul presidente siamo uniti e determinati a evitare scelte al ribasso», rassicura Alfredo D’Attorre. Anche Fassina ci crede: «La riunione non convocata per rimettere insieme differenze ormai evidenti ma per scegliere una posizione comune sul capo dello stato. E questa posizione comune c’è».

Ma c’è davvero? Nell’aula Berlinguer c’è chi vorrebbe fare una battaglia su Romano Prodi e chi invece spera che Renzi scelga Anna Finocchiaro o Giuliano Amato. «Noi non potremmo accettare un candidato frutto del patto del Nazareno», insiste Zoggia. Non vuol dire, puntualizza, essere «franchi tiratori», «se non saremo d’accordo lo diremo senza nemmeno fare interviste il giorno del voto». L’allusione è a quello che fece Renzi nel 2013 durante le votazioni per il Quirinale, bocciando dalle tv Anna Finocchiaro e Franco Marini. Civati annuncia: «Se il nome proposto non mi darà garanzie di autonomia da Palazzo Chigi voterò scheda bianca e lo dirò pubblicamente».

Nessuno lo nomina, ma il rischio di una frattura interna c’è. Francesco Boccia, reduce da una polemica sanguinosa con il segretario, lancia un appello: «È ormai chiaro anche ai bambini che il Pd è lacerato su una delle questioni più importanti del paese. Ed è altrettanto chiaro che stiamo andando tutti verso il baratro. Sarà bene considerare che quando in due si corre verso il burrone, occorre fermarsi insieme, altrimenti si precipita sempre insieme. Mi auguro che il senso di responsabilità prevalga in tutti e che si trovi un punto d’incontro visto che la democrazia è sintesi e non una prova di forza». Tra lunedì e martedì Renzi incontrerà i gruppi Pd, martedì stesso vedrà Berlusconi e gli altri partiti, quindi convocherà i grandi elettori democratici. La minoranza Pd conta, sulla carta, di un terzo dei grandi elettori. Ma già altre volte Renzi è stato capace di spaccarla: sul jobs act, sull’Italicum, sulle riforme. Proverà a farlo anche stavolta. A occhio ci è già riuscito.