Renzi dice di aver vinto uno a zero la partita sulla legge elettorale. A suo avviso, qualcuno voleva dimostrare che pur avendo lasciato a lui il partito e Palazzo Chigi, altri avevano i numeri. Invece – chiosa Renzi – «i numeri ce li abbiamo noi». La saggezza popolare ci dice che quando si danno i numeri bisogna sempre essere cauti. Molti non l’hanno proprio visto il gol dell’uno a zero per Renzi, e hanno anzi contato qualche pallone nella porta del premier. Il polverone ultimo sulle quote rosa ha fatto comodo per occultare una più complessiva realtà.

A una parte di noi può dispiacere che non siano passati gli emendamenti sulla parità.

Ma la verità è che questa legge è pessima, e tale rimarrebbe anche se fossero stati approvati. È chiaramente incostituzionale e in contrasto con i principi affermati dalla Corte costituzionale. Lascia intatte le distorsioni e le precarietà istituzionali che si sono tradotte in vent’anni di governo debole, incapace di cogliere i bisogni del paese e tradurli in indirizzo politico. L’omaggio verbale al popolo sovrano come dominus della scelta dei governi non vale a smentire la torpida risposta degli esecutivi di vario colore che si sono succeduti nel tempo.

Ancora, la legge non rispetta le promesse fatte, nemmeno quelle che hanno giustificato il licenziamento di Letta e il cambio a Palazzo Chigi. L’obiettivo essenziale della restituzione della scelta agli elettori non è stato raggiunto, e nemmeno in realtà perseguito. Ci sono due modi per realizzarlo pienamente: un sistema di collegio uninominale, o uno di lista e preferenza. Dopo tre legislature di parlamentari nominati, decenza avrebbe voluto che si scegliesse uno dei due. Si può capire il no alla preferenza, meccanismo secondo molti oggi ingovernabile, foriero di costi elevati della politica e perciò esposto a un alto rischio di corruzione e clientela. Ma perché non il collegio, che pure lo stesso Renzi aveva inizialmente sponsorizzato tra le opzioni possibili? Perché non – almeno – un sistema misto di collegio uninominale e liste bloccate parziali, sul modello tedesco? Qui la risposta è semplice e poco commendevole: perché alla fine il collegio non piace a Berlusconi, che da sempre lo ritiene favorevole alla sinistra, capace di candidature più competitive.

I correttivi inventati per risolvere il problema e presentati di volta in volta come decisivi in realtà non danno risposte efficaci. Tale è il caso per le liste bloccate brevi, con l’eventuale foglia di fico delle primarie. Qui la domanda è una sola: l’elettore deve poter votare la persona, o no? Basta la conoscenza dei (pochi) candidati di una lista breve, da votare in blocco? La risposta è semplice: se si vuole davvero restituire la scelta all’elettore, allora la libertà di voto deve potersi esercitare indicando un nome per un seggio. Nulla cambia se il pacchetto di pochi nomi da votare in blocco in una lista breve è formato attraverso primarie. Si toglie l’individuazione dei nomi all’organizzazione di partito, ma non la si dà all’elettore che sceglie il suo rappresentante nell’urna. Per quell’elettore, il voto rimane vincolato come e quanto lo sarebbe se i candidati fossero scelti dal partito. Sommandosi le liste brevi, è ancora un parlamento di nominati.

E che dire delle soglie per i piccoli partiti e per il premio di maggioranza? Qui si mostra vincente la strategia di Berlusconi, sia verso Alfano che per la Lega. Le regole e le percentuali si mostrano singolarmente atte a favorire le strategie coalizionali e di competizione elettorale del cavaliere. O pensiamo che siano un caso le dichiarazioni già messe agli atti da Alfano e Casini sul rientro a casa nel centrodestra? Con il paradosso davvero non banale che Renzi, largamente privo di maggioranza al senato senza i 31 di Alfano, è affidato – per la propria sopravvivenza e per il successo del programma di governo in termini di costruzione del consenso – a chi correrà contro di lui nel prossimo turno elettorale. È come se Montgomery avesse chiesto a Rommel in prestito i carri armati per vincere a El Alamein.

Riassumiamo tutto questo nell’uno a zero per Renzi, o nel tre o quattro a zero per Berlusconi, considerando anche il gol iniziale che ha riqualificato il cavaliere come aspirante padre della patria? Forse nel ristretto campo del partito ha vinto davvero, e nemmeno di misura. Non è la battuta di Bersani sulla movida che dimostra il contrario. Ma Renzi dovrebbe ricordare che non importa se ha la maggioranza nel partito, da lui costruito con, e attraverso, le primarie. Importa se ha una maggioranza di governo su cui contare fino in fondo. E quella non ce l’ha, come dimostrano inequivocabilmente i numeri del senato, e in sostanza anche i numeri che traspaiono nella battaglia della camera.

Quindi, ci permettiamo di consigliare prudenza al nostro focoso primo ministro, che per ora vede solo la fine del primo tempo alla camera e si avvia verso una difficile ripresa al senato. Diversamente, affronterà il pericolo per lui maggiore: che il Renzi di Crozza sia più vero del Renzi di Renzi.