Il giorno in cui bussai al manifesto chiedendo di scrivere per il giornale, fu Benedetto Vecchi ad aprirmi la porta. Avevo 27 anni, studiavo psicologia cognitiva e frequentavo il Forte Prenestino.

Con fare reverenziale verso il «caporedattore della Cultura» del giornale che leggevo ogni mattina, mi rivolsi a Benedetto dicendogli che non mi convinceva il modo in cui il manifesto trattava la tecnologia: «C’è poco Movimento», gli dissi. Intendevo dire che il giornale non si occupava abbastanza di quello che accadeva nelle periferie del cyberspace.

All’epoca con i compagni del collettivo gestivamo un Bulletin Board System (BBS, una bacheca informativa elettronica) e avevamo allestito un laboratorio hacker proprio nel centro sociale occupato di Centocelle.

Quando Internet e il web non erano ancora arrivati alle masse, era il 1994, già discutevamo nei forum online di droghe, Aids, copyright, brevetti e diritti digitali. Discutevamo del futuro di Internet e insegnavamo a tutti a mandare email, scrivere in Html e farsi un sito web.

Benedetto mi fece entrare e ci sedemmo nella sua angusta stanzetta, piena di libri e fumo di sigaretta, a via Tomacelli. Cominciai allora a raccontargli tutto quello che succedeva nell’underground tecnologico, nei centri sociali, nei movimenti per la casa e per il diritto al lavoro che cominciavano a incontrarsi anche nel cyberspace.

Parlammo della rivista Decoder lanciata da Gomma e Raf e delle sperimentazioni artistiche e tecnologiche del Cox 18 di Milano, dei Mutoid Waste Company, di ecn.org e dell’attitudine comunicativa di giovani inquieti «con i piedi nella strada e la testa nella tecnologia», come eravamo noi, cyberpunk autocandidati.

Benedetto mi ascoltò con attenzione e alla fine gli lasciai un testo che avevo scritto per spiegare che noi tutti vivevamo un futuro già presente e che a raccontarlo c’era una nuova generazione di scrittori di fantascienza, Bruce Sterling, William Gibson e molti altri.

Gli feci un pippone sulla science fiction che aveva smesso di parlare di astronavi a forma di sigaro e invasioni aliene per trattare di manipolazione genetica, hacker, i «cowboy della consolle», che si battevano contro le zaibatsu, i conglomerati industriali-criminali che governavano il mondo grazie a robot, brevetti e armi cibernetiche. Quel pezzo non fu mai pubblicato.

Attivista per i diritti sociali, gliene proposti un altro, una recensione su Lo Spazio del Razzismo di Michel Wieworcka, libro attuale oggi più che mai. Secondo il sociologo polacco lo spazio del razzismo si amplia quando non ci sono più movimenti sociali in grado di parlare per tutti e ogni gruppo, anche il sindacato, difende interessi particolari. Me lo fece riscrivere tre volte. Non fu mai pubblicato.

Il terzo tentativo andò bene.

Avevo scritto un articolo sulle mobilitazioni universitarie e l’inefficacia della statistica per cogliere il senso dei movimenti sociali.

Da allora cominciai la mia collaborazione con il manifesto. Una collaborazione ventennale che dura ancora oggi. E da cui ho imparato tanto.

Da allora scrivo di tecnologia, Internet, comunità hacker e diritti digitali. Non ho mai smesso. Anche se ho attraversato tante redazioni, da Il Sole 24 Ore a La Repubblica, oggi continuo a scrivere per il manifesto che da trenta anni si occupa di capitalismo immateriale e tecnologie di sorveglianza e che, unico giornale in Italia, ha una rubrica settimanale sulla cybersecurity dal nome «Hacker’s dictionary».

Tutto merito tuo, Benedetto. Grazie.