Il 13 luglio 1985, dal palco di Live Aid, Elvis Costello annunciò il suo pezzo come una «english folk song». Poi attaccò All you need is love. Negli stadi europei, Yellow submarine e il coro finale di Hey Jude diventarono forza popolare.

I Beatles hanno rappresentato la più potente tecnica dell’estasi sonora di massa del XX secolo.

La loro unicità sta però nel fatto che l’hanno realizzata mostrandosi maestri insuperati nel proibitivo ma oggigiorno decisivo compito di coniugare al massimo livello possibile intrattenimento e creatività, complessità e leggerezza, raffinatezza e popolarità. Viene a mente il Bauhaus, la scuola di progettazione dove insegnarono tra gli altri Klee e Kandinsky, con il suo sforzo di unire nell’oggetto di design qualità estetica e quantità industriale. Il Moderno è questo o non è.

D’altra parte, Roland Barthes parlava della possibilità (che vedeva realizzata in Chaplin) di un’arte che riuscisse ad attraversare gusti e linguaggi diversi restituendo «l’immagine d’una cultura insieme differenziata e collettiva: plurale». I Beatles hanno realizzato un’arte di questo tipo senza mai perdere il piacere dell’ascolto, e la loro opera non può venire adeguatamente compresa se non la si colloca nello spazio contraddittorio e fertile, rischioso ed esaltante tra l’élite e il popolo, in quell’intermezzo che li unisce separandoli e li divide connettendoli. L’unico all’altezza dei nostri tempi.

Sono stati un ossimoro vivente perché la loro è un’arte elitaria di massa: un modello di come abitare il seculum. Dall’inesauribile sarbatoio promozionale-mediatico che li riguarda (di cui finora il prodotto migliore è stata l’Anthology uscita in cd e in dvd a metà degli anni Novanta) arriva ora I Beatles Tutte le canzoni da Love me do a Let it be (il titolo originale francese è un ambizioso Les Beatles. La totale) un ponderoso libro di Jean-Michel Guesdon e Philippe Margotin (Rizzoli, pp. 676, euro 49,90): genesi, realizzazione e dettagli tecnici di tutto ciò che il gruppo ha registrato e pubblicato dal 1963 al 1970. La confezione è sontuosa, le illustrazioni numerosissime (finalmente alcune foto poco note) e in calce al volume si trova un utile glossario.

L’impostazione è la stessa di due classici della filologia beatlesiana, quello di Ian McDonald e quello di Mark Lewisohn (il primo tradotto da Mondadori, il secondo da Arcana).

La miniera di informazioni e curiosità (la maggior parte già note ai beatlemaniaci) è sterminata, e come per ogni mitografia che si rispetti arriva fino al dettaglio parafeticistico. Che John non abbia partecipato alla registrazione di Love you to di George; o che Paul al posto di Ringo sia alla batteria in quello che rimane il rock più travolgente degli anni Sessanta, Back in U.s.s.r. (incisa il 22 e 23 agosto del 1968, i giorni in cui i carri armati sovietici invadevano Praga); oppure che al sax di You know my name c’è Brian Jones degli Stones, non sono notizie per un fan degno di questo nome.

Ma che l’11 agosto 1969 −quando nello studio 2 di Abbey Road partecipa alle armonizzazioni vocali di Oh! Darling − sarebbe stato l’ultimo giorno in cui John incideva con il gruppo; o che allo 0’9’’ di Honey Pie chi ci riesce può sentire l’eco di un assolo di chitarra cancellato male; oppure che la Rickenbacker 360/12 di cui George si innamorò gli fu «presentata» da John il 9 febbraio del 1964 in una camera d’albergo alla vigilia dell’esibizione nell’Ed Sullivan Show, pietra miliare della beatlemania negli Stati Uniti, sono minuzie storico-filologiche niente male.

Il libro ripercorre dunque l’opera completa dei Fab Four, e ciò permette di seguire ancora una volta (e chissà quante ancora ce ne saranno) la «geometrica potenza» della loro progressione inventiva racchiusa nel breve arco di quattro-cinque anni.

Nella prima parte del loro percorso artistico, diciamo dal 1963 al 1965, i Beatles hanno mostrato in tutta evidenza nelle canzoni una creaturalità comunicativa senza precedenti, ma tutto sommato −pur con apici innovativi straordinari − riconducibile ai moduli standardizzati della musica di consumo (blues e rock ‘n’roll).

Però, quantomeno a partire dal feed-back che apre I feel fine e certamente da Rubber Soul in poi, con Sgt. Pepper’s sulla vetta, la loro maturazione artistica e più ampiamente culturale li ha condotti a lavorare costantemente su quella soglia tra establishment e sperimentalismo (ad esempio con l’utilizzo del caso, tratto tipico delle avanguardie storiche), tra continuo rinnovamento formale e diffusione commerciale planetaria, tra impareggiabile immediatezza e raffinata elaborazione, conservando sempre quella sofisticata e insieme fulminante fusione di disarmante semplicità e iridescente complessità che ne ha contraddistinto il percorso.

Dimostrando che l’intrattenimento non significa necessariamente disimpegno, i Beatles dei cosiddetti studio years hanno giocato con i codici e con i generi, li hanno forzati, manipolati e ricostituiti a un più alto livello, che è diventato paradigmatico per la musica non solo pop e rock venuta dopo di loro. «I compositori che non hanno profondamente sentito e compreso l’ineluttabile necessità di Webern sono del tutto inutili»: senza enfasi, con pacata certezza, le parole di Pierre Boulez si possono ripetere a proposito dei Beatles. Che hanno lavorato con sano eclettismo su una grande quantità di registri espressivi (folk, jazz, vaudeville, classica, avanguardia: sabotavano il rock mentre contribuivano a crearne i codici), ma mai in modo semplicemente imitativo o parassitario: il soggetto rimane superiore al genere, si impone decostruendolo e scavandone le grammatiche interne.

L’intelligente, seduttivo e talora finemente parodistico riuso dei materiali banali va di pari passo all’impegno nel migliorare progressivamente l’accuratezza dei dettagli esecutivi, utilizzando (per primi in misura così determinante) le risorse tecnologiche della sala d’incisione dopo aver interrotto per sempre, nel 1966, le esibizioni dal vivo. Una decisione fino ad allora inimmaginabile nello show business globalizzato, con la quale rivendicarono l’uso del tempo creativo all’interno della catena produttiva.

Compresero che le condizioni materiali della creazione sono determinanti nell’epoca della riproducibilità tecnologica di massa. Conquistarono la libertà di incidere senza scadenze e limiti temporali, con ritmi artigianali nell’era della produzione di serie, provando e riprovando (Sgt. Pepper’s richiese sei mesi di lavoro e settemila ore di registrazione) fino a che non fossero stati soddisfatti del risultato.

Nessuno prima era mai riuscito a imporre e salvaguardare un margine così ampio alla propria autonomia artistica. Si può pensare unicamente al contratto strappato alla Rko da Orson Welles nel 1941 per Quarto potere.

Il punto sta qui: tutti questi fronti creativi sono stati aperti e queste soglie tradizionali abbattute nell’ambito della diffusione mediatica a livello planetario, governata dalle inflessibili ed esproprianti leggi del mercato.

Paul McCartney
«A quel tempo avevamo tra le mani un potere spaventoso. Se i Beatles fossero stati davvero cattivi avremmo potuto giocare al gioco di Hitler, avremmo potuto prendere i giovani e far fare loro qualsiasi cosa. Tale era il nostro potere»

Ha dichiarato Paul McCartney: «A quel tempo avevamo tra le mani un potere spaventoso. Se i Beatles fossero stati davvero cattivi avremmo potuto giocare al gioco di Hitler, avremmo potuto prendere i giovani e far fare loro qualsiasi cosa. Tale era il nostro potere».

Tre immagini racchiudono e sintetizzano, come solo le immagini sanno fare, questa maiestas.

La prima: John e Paul, giovani, scatenati e felici che cantano insieme allo stesso microfono nello storico concerto dello Shea Stadium di New York il 15 agosto del 1965.

La seconda: la copertina di Rubber Soul, su cui non compare il nome del gruppo; non era mai accaduto nella storia della discografia.

La terza: quattro anni dopo lo Shea, sul tetto della Apple, al vento che soffiava gelido quel 30 gennaio del 1969, nonostante stessero vivendo quel momento di crisi profonda e lacerante che li avrebbe portati un anno dopo allo scioglimento, sprigionavano una incoercibile potenza carismatica.