Amata, odiata, desiderata, copiata, iconico giocattolo per ragazzine (e ragazzini) di moltissime generazioni, da quando comparve la prima volta in America, nel 1959 col corpo sottile – e sintonizzato alle mode dell’epoca – fasciata in un costume zebrato così come l’aveva immaginata la sua creatrice, Ruth Handler, moglie del cofondatore della Mattel, guardando la figlia Barbara giocare – e di quest’ultima le aveva dato il nome abbreviato: Barbie.

SÌ, PROPRIO LEI, la Bambola per eccellenza più venduta al mondo, la Barbie girl con gli occhioni e i capelli lunghi, e quel vitino sottile che l’ha fatta incolpare di accendere turbe alimentari nelle adolescenti. La Barbie da collezionare a cifre folli o da sfregiare e maltrattare – come dichiarazione delle ragazzine di un passaggio dall’infanzia all’età adulta – accusata di incarnare uno stereotipo di donna antifemminista solo bella e stupidina – ma quanta intelligenza per questo ci vuole ce lo aveva già insegnato Monroe checché ne pensi l’orrendo Andrew Dominik. Che negli anni ha saputo adattarsi con abili operazioni di marketing alle epoche e alle loro esigenze per carezzarne il giusto verso – senza rischiare tonfi di mercato – adottando quindi forme più curvy, variazioni afro, asiatiche, professioni socialmente importanti – medico, presidente degli Usa, astronauta – per non divenire obsoleta e soccombere a nuove avversarie agguerrite.

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Le «Piccole donne» nel mondo di AmyBarbie on my mind, una donna e al tempo stesso infinite donne nel suo mondo di amiche, sorelline di cui il contrappunto è Ken, spasimante eterno o simil-fidanzato un po’ sempre in secondo piano, quasi sbiadito nonostante l’abbronzatura da ragazzo da spiaggia e tavola da surf, anche lui moltiplicato secondo i cambiamenti dei tempi. E di casette rosa, feste, allegria, tacchi vertiginosi, vestititi e accessori dai colori fluo, in una terra che non c’è dove tutto è bellissimo o spaventoso a seconda di come lo si guarda. Ma del resto: non è un po’ lo stesso ovunque?

È IN QUESTO immaginario che si avventura Greta Gerwig (Piccole donne) per il suo Barbie scritto insieme a Noah Baumbach, con cui la coppia più glamour dell’indie americano e del mumblecore conferma la sua presenza nell’altissimo budget mentre il film si annuncia come il vero «evento» di questa caldissima estate, preceduto da una massiccia campagna pubblicitaria (rosa ovviamente) e diverse polemiche – in Italia sarà massacrato da un doppiaggio davvero agghiacciante, sarebbe finalmente il tempo nel 2023 con le piattaforme e quant’altro di smetterla con questi doppiaggi preistorici.

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Sulle BarbieBarbie, dunque, nella sua Barbieland tripudio di rosa pastello caramellato o fucsia tra l’Mdma e i marshmallows dove ogni giornata è «bellissima», la cellulite è una parola che non si può neppure pensare, le scarpe hanno almeno 12 cm di tacco e sono vietate ansia e tristezza. E dove a dominare non senza un certo autoritarismo – seppur in forma sorridente – sono le «Barbie» mentre i «Ken» rimangono «accessori» anche se inseparabili nella metafisica delle Barbie, e vengono messi regolarmente alla porta quando cercano di infilarsi nelle serate only for girls. Non è però un biopic della bambola che Gerwig realizza – pure se a un certo punto appare la sua creatrice – la sua ambizione sembra piuttosto quella di decostruirne l’iconografia in una sorta di coming of age con presa di coscienza del «mondo reale» di una ragazza che nel suo essere Barbie si fa essenza degli stereotipi femminili (e in qualche modo maschili ) – o appunto di una certa loro modalità di racconto. Non a caso la protagonista è la «Barbie Stereotipo» (perfetta Margot Robbie anche co-produttrice) con lo sguardo blu e i capelli biondi e quei piedi arcuati che possono solo infilarsi in qualche Jimmy Choo.

Barbie canta, sorride, attraversa la città ogni giorno in un trip estatico finché all’improvviso non le sale una tristezza ignota, insieme a pensieri addirittura di morte, e ancor peggio scopre un accenno di cellulite sulla coscia. Per trovare una spiegazione deve andare a cercare la bambina che gioca con lei il che significa scegliere, come le dice la Barbie stramba (accidentata da giochi troppo violenti) tra un Birkenstock (il mondo reale) e una pantofolina con tacco a spillo (la favola).
Su questo confine, in un viaggio che fa un po’ esodo dal paradiso, Gerwig costruisce la sua narrazione con la bambola che perde pian piano ogni sua illusione scoprendo che nella realtà quell’utopia matriarcale di cui si sente ispiratrice e custode non esiste, e che invece lei stessa è stereotipo in una cultura di massa (non era per questo che l’ha ritratta Andy Warhol?) dominata dal patriarcato di cui il Ceo di Mattel e il «solo uomini» del gruppo dirigente sono espressione. Patriarcato che seduce invece Ken (Ryan Gosling biondissimo e palestrato) come arma possibile di riscatto per prendere finalmente il potere dopo tanta poca considerazione con muscoli e cavalli – non ha ancora affinato gli strumenti per praticarlo in modo subliminale come nella realtà – e una messinscena di sé macho che ammicca agli assalitori trumpiani di Capitol Hill.

Nel cortocircuito tra il Truman Show di Barbieland e il «mondo reale» – che poi è Los Angeles e al primo somiglia – accadono molte cose, Gerwig sceglie la satira che non sfugge ai suoi paradossi, vi intreccia più declinazioni del femminile, ci mette ironia, umorismo, si perde un po’ nella necessità dimostrativa che irrigidisce a volte il ritmo del film e infine fa della sua Barbie più che una nuova icona femminista il ritratto di una giovane donna fuori da un tempo preciso in un processo di consapevolezza, nella sua presa di parola come donna che rifiuta l’essere «simbolo» iconico o musa, oggetto di un ideale altrui, ma rivendica le proprie ambizioni e il suo diventare lei stessa soggetto nella creazione di sé e del mondo. Con ai piedi le Birkenstock seppure senza rinunciare al rosa.