È di almeno 52 i morti e altrettanti feriti il bilancio dell’incendio divampato giovedì notte nell’impianto dell’azienda alimentare Hashem Food and Beverage di Rupganj, città industriale non lontano dalla capitale del Bangladesh, Dacca. Un bollettino destinato quasi sicuramente a peggiorare. Sono infatti ancora decine le persone di cui non si hanno notizie e due dei sei piani dello stabilimento non sono stati ancora raggiunti dai soccorsi.

Mentre la fabbrica produceva perlopiù succhi di frutta, noodles e dolciumi, secondo la ricostruzione dei vigili del fuoco, l’incendio – che si sospetta sia partito dal piano terra – si sarebbe propagato con grande velocità a causa dei prodotti chimici e della plastica presenti all’interno dell’edificio. In violazione delle leggi nazionali, la porta d’accesso – unica via di fuga – risultava chiusa dall’interno al momento dei soccorsi, tanto che alcuni lavoratori hanno dovuto saltare dalle finestre per sfuggire alle fiamme. Stando ai familiari delle vittime e ai soccorritori, l’impianto era anche sprovvisto di adeguate misure antincendio. Momenti di tensione hanno accompagnato le operazioni di salvataggio. Nella confusione alcuni parenti hanno aggredito la polizia giunta nella notte per avere informazione sulla sorte dei propri cari.

Nonostante siano state dispiegate diciotto unità di vigili del fuoco, le fiamme sono state domate solo nel pomeriggio di venerdì, complicando i soccorsi e una stima esatta dei danni. Raggiunto telefonicamente da Associated Press, il general manager responsabile per l’export, Kazi Abdur Rahman, ha difeso la società madre Sajeeb Group. «Quello che è successo oggi è un evento molto triste», ha dichiarato Rahman, aggiungendo però che «la nostra è un’azienda stimata; rispettiamo le regole».

Il governo di Dacca ha aperto un’indagine per far luce sull’accaduta e verificare le eventuali responsabilità. Stando al sito web del gruppo, la società esporta in diversi di paesi. compresi Australia e Stati Uniti. Il Bangladesh non è nuovo a questo tipo di tragedie. Nel 2012, circa 117 lavoratori sono morti intrappolati in una fabbrica di abbigliamento a Dacca. Anche in quel caso la porta era chiusa dall’interno. Il peggior disastro industriale del paese è avvenuto l’anno successivo, quando lo stabilimento Rana Plaza, alle porte della capitale, è crollato uccidendo più di 1.100 persone.

Da allora – anche grazie a una maggiore responsabilizzazione dei marchi occidentali – le autorità hanno imposto regole più severe per mantenere la sicurezza nell’industria tessile locale, che impiega almeno 4 milioni di persone e frutta all’economia locale 26 miliardi di euro ogni anno. Ma mentre il comparto dell’abbigliamento ha sperimentato qualche miglioramento molti altri settori industriali continuano ad essere affetti da gravi carenze. E i disastri continuano. Nel febbraio 2019, 67 persone hanno perso la vita in un incendio che ha divorato la parte più antica di Dacca, densa di abitazioni, negozi e magazzini. Secondo un rapporto pubblicato nel 2017 dall’Organizzazione internazionale del lavoro, il quadro normativo e il sistema di supervisione «non sono stati in grado di tenere il passo con lo sviluppo del settore».

Ma il problema è più complesso di quanto non sembri. Molti proprietari di fabbriche di piccole e medie dimensioni lamentano la richiesta di costose misure per la formazione del personale e l’adeguamento alle nuove norme sulla sicurezza. A cui si aggiunge la crescente concorrenza di mercati esteri a basso costo, come l’Etiopia, e il ribasso dei prezzi da parte dei marchi globali per fronteggiare la crisi globale.