Il 17 febbraio, «Giovedì di Sangue», è una delle date più dolorose e allo stesso tempo più entusiasmanti per la maggioranza della popolazione del Bahrain.

Quel giorno le forze di sicurezza di re Hamad bin Isa al Khalifa si lanciarono su piazza della Perla a Manama per sgomberarla dai manifestanti accampati lì sulla scia delle sollevazioni in corso in Tunisia, Egitto e Yemen. Gli uccisi furono quattro, i feriti quasi 300. Quella strage servì a rendere più incisiva una lotta popolare non inedita in Bahrain che la “Primavera araba” aveva riacceso.

«Quei morti ci hanno dato una carica speciale, sappiamo che la nostra battaglia è giusta. E non siamo soli, i popoli arabi sono scesi in strada a chiedere giustizia e democrazia», disse in quei giorni al manifesto Ebrahim Sharif, leader socialista e tra le personalità bahranite più autorevoli.

La tendopoli di piazza della Perla in quei giorni divenne un laboratorio politico e sociale. Si riempì di attivisti, esponenti di forze tra le più varie, di sciiti alla ricerca dell’uguaglianza e di sunniti democratici desiderosi di costruire un Bahrain in cui potessero riconoscersi tutti i suoi cittadini. I giornalisti stranieri impararono quanto fosse politicamente vivace quell’angolo del Golfo.

Durò meno di un mese. Il 14 marzo, mille soldati sauditi e 500 poliziotti degli Emirati arabi entrarono in Bahrain su richiesta di re Hamad e spazzarono via il progetto di piazza della Perla. Fu una nuova strage. Dozzine di morti, almeno mille feriti molti dei quali furono arrestati dalla polizia dentro gli ospedali. La repressione fu brutale ma non spense il desiderio di cambiamento.

La Primavera del Bahrain non ha mai chiesto di rovesciare la monarchia, piuttosto sollecita la sua trasformazione da assoluta in costituzionale assieme alla realizzazione di istituzioni democratiche e all’uguaglianza piena tra sunniti sostenitori del re e gli sciiti. Solo forze marginali vorrebbero instaurare la repubblica.

Re Hamad in ogni caso non ha mai aperto a un confronto politico sincero. Dopo aver avviato negoziati di facciata con i rappresentanti di piazza della Perla, ha scelto ancora la via della repressione arrestando centinaia di oppositori e difensori dei diritti umani, come Nabeel Rajab e Abdulhadi al Khawaja, oltre ai leader del partito sciita al Wefaq dichiarato illegale.

E ha raccolto l’appoggio dei suoi alleati tradizionali – Arabia saudita ed Emirati – e degli Stati uniti denunciando la sollevazione popolare nel suo regno come il frutto di un complotto ordito dall’Iran. Il fatto che il Bahrain ospiti la V Flotta Usa e una base della Gran Bretagna ha contributo a far calare il silenzio su condanne a morte e violazioni dei diritti umani.

L’appoggio occidentale alla monarchia bahranita è cresciuto ulteriormente con la recente decisione di re Hamad di normalizzare le relazioni con lo Stato di Israele. «I diritti del nostro popolo sono schiacciati dal peso degli interessi delle potenze locali e internazionali», commenta con amarezza l’attivista Maryam al Khawaja.