Difficile sottrarsi al fascino dell’ossessionante galleria di immagini raccolta, fino a fine settembre, nel Museo nacional di Città del Messico, un edificio nel cuore della capitale, costruito dall’architetto Silvio Contri per servire da Ministero delle Comunicazioni, oggi convertito a sede di una rilevante collezione d’arte dall’epoca coloniale fino al Novecento. Un volto solo ritorna infatti come un’eco incessante nell’infilata labirintica delle sale al primo piano, adibite a ospitare le esposizioni permanenti: quello di Carmen Mondragón Velasca, occhi verdi d’ampiezza inaudita in combinazione aliena con capelli mai uguali a se stessi, di volta in volta schiariti dal flash della camera o scorciati per tagli studiati e imperfetti, in consonanza con la moda maschiaccia delle ragazze emancipate nei ruggenti anni venti.
Virgulto dell’alta borghesia cosmopolita in controllo del Messico liberato dal giogo francese (e caduto nelle mani del dittatore Porfirio Díaz), Carmen era figlia del generale Manuel, spesso all’estero insieme alla famiglia fra Parigi e San Sebastián con lo scopo di costruire cannoni campali su ordine dell’esercito patrio o piuttosto in fuga dall’accusa di conservatorismo antirivoluzionario dopo l’assassinio del presidente Francisco Madero: godette così di un’educazione all’europea, proseguita nei collegi francesi di Città del Messico durante i soggiorni nei quali i genitori poterono rientrare dal Vecchio Continente. Riapprodata definitivamente ai luoghi della prima infanzia nel dicembre 1920, Carmen dovette comunque rinascere a nuova vita. Alle spalle un matrimonio fallito con Manuel Rodríguez Lozano – il quale avrebbe giocato un ruolo importante nella Secretaría de Educación Pública in direzione di un’arte contemporanea e popolare – si legò a un altro pittore, celebre sulla scena nazionale, il Dr. Atl, al secolo Gerardo Murillo, incarnazione nel milieu intellettuale messicano di una tendenza avanguardista e apolide, in dialogo costante (seppure ‘a distanza’) con gli enunciati del muralismo.
Simbolo di una nuova venuta al mondo il nome in lingua nahuatl col quale la donna cominciò a firmarsi subito dopo l’inizio della relazione su suggerimento del compagno, e cioè Nahui Olin, un richiamo al quarto movimento del sole nella sua funzione vitale di elemento rigeneratore. Tale preferenza rinvia alle tentazioni cosmologiche, spiritualiste di certi gruppi di rottura organizzatisi sulla scena francese o italiana all’inizio del secolo ventesimo (il Dr. Atl aveva visitato Roma, oltre che Parigi, nel corso dei suoi peripli continentali, nel 1897 e poi ancora nel 1911), dal futurismo d’après Balla fino alle sperimentazioni di Robert Delaunay e dell’Orfismo, spesso legate a una ricerca sul colore tradotta in chiave scientifica e simbolica.
Non a caso la stessa Nahui, abbandonando definitivamente un esordio di successo come caricaturista, si sarebbe consacrata a una più esclusiva produzione poetica e pittorica, informata alle medesime influenze. Lo documenta il titolo inequivoco della sua prima raccolta di versi, Óptica cerebral. Poemas dinámicos, pubblicata nel 1922: un libro d’arte – illustrazioni del Dr. Atl arricchivano le copie del volume, nella forma di disegni eseguiti direttamente su ciascun esemplare – che, rimandando a temi e miti della poetica futurista, si ricollegava alle istanze della cerchia ‘estridentista’, riunitasi nel dicembre 1921 attorno al manifesto «Actual no. 1°» a firma di Manuel Maples Arce. Sulla copertina di questa plaquette, pure in mostra, compare ancora una volta il viso di Carmen, gli occhi verdi trasformati in un motivo ‘radiante’; e il suo volto introduce ugualmente le successive fatiche letterarie, Calinement je suis dedans del 1923 e À dix ans del ’24, le pupille come grandangolari spalancati sul mondo, le ciglia un diagramma aguzzo a incorniciare l’arco teso delle palpebre. Proprio la centralità dello sguardo rimane un elemento distintivo di questi ritratti ‘sintetici’, sebbene per l’ultimo volumetto la firma dietro alla maschera di fissità primitiva non sia più di Murillo, ma della stessa Olin: la quale nel frattempo – guadagnandosi un posto di insegnamento alla SEP con posizioni polemiche rispetto al sistema educativo corrente – aveva avviato un catalogo di pittrice destinato negli anni a divenire corposo e a guadagnarsi successi negli Stati Uniti, entrando nel 1939 nelle collezioni del MoMa e venendo inclusa nel 1940 nell’esposizione del Golden Gate di San Francisco, dove fu esposta una Corrida de toros prestata da un collezionista di peso, Diego Rivera.
Proprio quest’attività è ricostruita con precisione al Museo nacional, grazie a una profusione di prestiti e col ricorso a un serio scrupolo filologico. Certo una galleria così ricomposta chiarisce quanto la pittura della Olin – etichettata dapprima come naïf, più tardi avvicinata alle correnti del ‘superrealismo’ – fosse in realtà debitrice delle esperienze fauves e delle indagini di Luis G. Serrano, senza dimenticare le perlustrazioni del Dr. Atl sulle ‘artes popolares’ del paese (una monografia al proposito fu edita da Murillo nel 1920 e nel ’30 il Met organizzò una retrospettiva newyorkese al riguardo); tuttavia la rassegna esaustiva non smentisce il senso di ‘ripetizione’ cui abbiamo fatto riferimento in apertura. Il mondo figurativo della Olin – quello dei suoi amanti, dei suoi gatti, delle memorie d’infanzia, degli incontri casuali – si contraddistingue per la medesima dismorfia che rendeva i tratti di Carmen tanto magnetici, e cioè l’evidenza irriducibile di uno sguardo smisurato, incluso nella sproporzione delle cavità orbitarie. Un esercizio narcisistico, propenso a deformare la realtà tangibile in un rispecchiamento diretto con l’individualità fisiognomica dell’artista: come se l’ossessione per le rotondità oculari riflettesse l’entusiasmo per le forzature di una prospettiva curvilinea in voga in Messico, come altrove, fra anni dieci e venti. Forse per questo i dipinti della Olin dialogano tanto bene con l’altrettanto completa collezione di scatti, assemblata in quest’occasione a Città del Messico, eseguiti dai fotografi più vari sul suo corpo di modella, da Edwar Weston (innamorato di ogni meraviglia messicana) a Jean Charlot, da Antonio Garduño a Clarence Sinclair Bull (impegnato a costruirne il fallimentare lancio da attrice a Hollywood).
Come infatti è stato messo in luce dagli studi dedicati alla sua carriera secondo una prospettiva di genere, il ruolo di ‘modella’ fu vissuto dalla Olin sempre in chiave di collaborazione, aspetto di un’unica parabola professionale (famosa una sua citazione rimbaudiana, «cuando poso, siempre soy otra»); e la consapevolezza di questo ruolo arrivò al punto di tradursi in una spregiudicata autopromozione, propensa allo scandalo del ricorso al corpo in chiave pubblicitaria (come per la scelta di nudi presentata nella propria casa-studio nel 1927). Per questo la sequenza di opere in mostra risulta, pur nella lampante monotonia, fonte di un fascino inevitabile: perché offre la possibilità di registrare le variazioni continue di un Io coltivato e complesso, cosciente della propria biografia e degli ‘strumenti’ alla base di una personale prassi artistica. Tanto più che è difficile non accostare, nella propria mente di spettatori, la modernità apollinea, internazionale dei ritratti senza veli di Carmen alla sontuosa, sofferente iconografia di Frida Kahlo, fiammante e folklorica, oggi in mostra al V&A di Londra in una sfilata strabiliante di vestiti e accessori: due traiettorie del Messico novecentesco, specchiate nelle performances quotidiane di donne esemplari per quel mondo e per quei tempi.