Chi studia l’evoluzione del nostro pianeta e della sua atmosfera sa che non bisogna scambiare l’evoluzione del clima con la variabilità meteorologica: un singolo temporale o l’occasionale giornata di sole in inverno dimostrano tutto e il suo contrario. È meglio collocare i singoli eventi in una prospettiva di lungo periodo, da cui trarre conclusioni più affidabili dal punto di vista statistico. E allora i dati sull’acqua alta a Venezia di questi giorni diventano ancora più allarmanti. Dal 1923, l’acqua ha raggiunto i 140 cm di altezza ventidue volte, ma dieci di questi eventi eccezionali si sono verificati nell’ultimo decennio. La tendenza al peggioramento è evidente e non riguarda solo Venezia.

GLI EVENTI ESTREMI, cioè inondazioni, uragani (ma anche i periodi di siccità) stanno aumentando di frequenza.

Valutare le conseguenze del cambiamento climatico non è facile. Più che l’aumento della temperatura media a livello globale al ritmo preoccupante di 0,1°-0,2° per decennio, ciò che spaventa è l’impatto locale del cambiamento climatico, che a seconda della regione può prendere anche forme molto diverse e persino opposte. Tuttavia, tra le poche previsioni valide a tutte le latitudini ci sono quelle relative al livello delle acque. Il mare salirà un po’ ovunque, com’è ragionevole per un fluido. Le cause principali sono lo scioglimento dei ghiacci che riverseranno negli oceani grandi quantità d’acqua oggi congelata, e il riscaldamento stesso, che riguarda la terra, l’atmosfera e anche i mari. Come ogni sostanza, anche l’acqua marina si dilata se si scalda.

Il processo di innalzamento è già iniziato e l’effetto sulle alte maree veneziane lo dimostra. Nel ventesimo secolo, il livello dei mari si è innalzato di una quota compresa tra gli undici e i sedici centimetri. A Venezia l’innalzamento si somma alla subsidenza, cioè allo sprofondamento del suolo anch’esso causato dalle attività umane. In totale, nel solo ‘900 l’acqua della laguna veneta è cresciuta di oltre trenta centimetri.

Ma il grosso deve ancora succedere. Entro il 2050, i climatologi si attendono altri venti o trenta centimetri di innalzamento delle acque. Secondo i modelli più accreditati, anche se si tagliassero istantaneamente le emissioni di anidride carbonica, entro la fine del secolo il livello globale degli oceani dovrebbe salire di un altro mezzo metro. Ma scenari peggiori (e più realistici) prevedono che l’innalzamento si avvicini ai due metri, con conseguenze catastrofiche per moltissime persone.

PER CAPIRE quante saranno occorre stimare la densità abitativa nelle zone costiere più a rischio. Ci ha provato una ricerca di pochi giorni fa, firmata dagli scienziati Scott Kulp e Benjamin Strauss dell’organizzazione no profit «Climate Central» e pubblicata sulla rivista Nature Communications.

Secondo le loro stime, basate sulle mappe digitali attualmente più precise, oggi 110 milioni di persone vivono sotto del livello di alta marea, e 250 milioni sotto il livello delle inondazioni annuali. Le proiezioni di Kulp e Strauss sono ancora peggiori, secondo i vari scenari. In quello più pessimista, (le emissioni continuano a crescere e il ghiaccio antartico diventa instabile) 630 milioni di persone vivranno al di sotto del livello delle inondazioni periodiche entro la fine del secolo: significa circa un essere umano su dieci, rispetto all’attuale popolazione mondiale. L’allarme lanciato dai due ricercatori fa riflettere, perché sono cifre tre volte superiori rispetto alle stime precedenti, fondate però su mappe meno precise. Tra i paesi più colpiti figurano Cina, Bangladesh, India, Indonesia. Mettere in sicurezza i destini di una simile massa di persone, destinata probabilmente a una migrazione forzata, è una delle sfide dell’umanità del futuro.

Che le coste siano le aree più vulnerabili al cambiamento climatico lo conferma un’altra ricerca recentissima, pubblicata sulla rivista Pnas dai ricercatori dell’università di Copenhagen sul danno arrecato dagli uragani sulle coste statunitensi nel periodo 1900-2018. Stavolta i ricercatori hanno usato i dati delle società assicurative, le prime a tenere regolarmente nota dei danni da calamità naturali. I numeri mostrano che le aree investite da uragani e alluvioni si sono notevolmente estese, doppiando ormai i valori di inizio ‘900.

LE ASSICURAZIONI sono un ottimo “termometro” della crisi: il cambiamento in atto ha una ricaduta molto concreta nell’aumento dei premi assicurativi nelle zone ad alto rischio. In una recente intervista al Guardian, il climatologo Ernst Rauch della compagnia di assicurazioni Munich Re ha lanciato un allarme sui costi già insostenibili della crisi: in molte aree del mondo (tra cui l’Italia) sempre più persone non possono più permettersi di assicurare i loro beni nei confronti delle calamità naturali. Ma ormai dovremmo smetterla di chiamarle «naturali».