Il suo nome “occidentale” da uomo d’affari dell’Asia World Company è Steven Law. Quello birmano di nascita (classe 1958), Tun Myint Naing. Ma gli statunitensi, di sue identità, ne mettono insieme ben «24, degli alias conosciuti» dall’ambasciata Usa a Yangon e dalla Drug enforcement agency (l’agenzia antidroga a stelle e strisce). Lo rivela un cablogramma «confidenziale» diffuso da Wikileaks, al quale si possono fornire anonimamente documenti riservati. L’allora ambasciatrice degli Stati uniti in Myanmar, Shari Villarosa, il 28 dicembre 2007 lo invia a tutta una serie di soggetti (governo Usa, agenzie d’intelligence come la Cia, delegazione americana all’Ue, Onu, governi limitrofi ritenuti alleati). In quel documento, tracciando un profilo dettagliato del magnate birmano, l’ambasciatrice chiede come mai il suo governo non lo abbia (oggi come allora) inserito nella cosiddetta “blocked list”: persone vicine al regime militare con le quali le imprese statunitensi non possono avere rapporti. «L’aver omesso Steven Law da quell’elenco di sanzioni mirate – scrive Villarosa – ha suscitato molte domande da parte di cittadini birmani, altri diplomatici e giornalisti». Perché, chiariva già nel 2007 l’ambasciatrice Usa a Yangon, «finanziariamente è un giocatore più grande di Tay Za (tra i maggiori uomini d’affari birmani, nda)». Quindi «colpire le attività finanziarie di Steven Law sarà un forte segnale della nostra volontà di tagliare i finanziamenti al regime».

LE MOTIVAZIONI? «Ha una delle società del settore costruzioni e commerciali di maggior successo della Birmania (…) negli ambienti economici birmani è noto come il vertice degli amici del regime (…) 500 milioni di dollari di investimenti in Birmania (…) continua ad avere ottimi rapporti con i vecchi generali (…) li usa per ottenere lucrosi contratti». Subito dopo quel cablogramma «confidenziale», Steven Law entra nella lista nera Usa. Le imprese Usa non possono più fare affari con lui. Lo stesso fa l’Unione europea nel 2009. Del resto per la Drug enforcement agency (Dea), Steven Law è una «lavatrice» che, tramite le sue aziende e gli interessi economici in Thailandia, riciclerebbe i proventi del narcotraffico birmano (oppio ed eroina).

UN BUSINESS DI FAMIGLIA, questo, visto che già suo padre, Lo Hsing Han, fondatore dell’Asia World Company e per la diplomazia Usa «vicino all’ex primo ministro birmano, Khin Nyunt», era un noto signore della droga. Quel conglomerato di aziende (tra i più grandi del Myanmar) ora è nelle mani di suo figlio, Steven Law, e della sua consorte (anche in affari) Cecilia Ng, alias Ng Sor Hong, di Singapore. In questo Stato insulare oggi avrebbero sede diverse aziende di famiglia e conti bancari in valuta straniera. Secondo un informatore dell’allora ambasciatrice Villarosa, tra la fine «degli anni Novanta e l’inizio degli anni 2000, circa il 70% degli investimenti di Singapore in Myanmar arrivano tramite l’Asia World di Steven Law».

NEL 2015, un rapporto dell’ong britannica Global Witness (si occupa di sfruttamento delle risorse naturali, conflitti, povertà, corruzione e violazioni dei diritti umani), parla delle sue miniere di giada (pietra molto richiesta dalla classe media cinese perché considerata portafortuna) a Tann Gwi Hka e della «partnership con una ditta militare». Cui si aggiungerebbero, sempre per l’ong britannica, gli «stretti legami di Asia World con figure di spicco della giunta». Eppure nell’ottobre 2016, l’allora presidente Usa Barack Obama rimuove Steven Law e le sue aziende dalla lista nera Usa. Scelta presa poi, a cascata, anche dall’Ue. Arriviamo così al 2019, quando un rapporto della Commissione d’inchiesta indipendente internazionale del Consiglio per i diritti umani dell’Onu, mette nero su bianco che Steven Law «è accusato dal governo degli Stati Uniti di riciclaggio di denaro per conto del Tatmadaw» (l’esercito birmano). Il suo nome figura nell’elenco dei donatori alle forze armate: 7.142.86 dollari regalati ai militari nel settembre 2017 . Un obolo per la cosiddetta “operazione di sgombero” contro i Rohingya, su cui pende l’accusa di genocidio. In quel report si legge anche che «oltre la metà degli investimenti che da Singapore arrivano in Myanmar, transitano grazie ad una partnership con l’Asia World Group, per un totale di oltre 1,3 miliardi di dollari».

ECCO PERCHÉ ORA, dopo il nuovo colpo di Stato dei militari in Myamnar del 1° febbraio, l’organizzazione per i diritti umani Justice for Myanmar, visti «i suoi legami commerciali con l’esercito birmano e le donazioni a sostegno del genocidio dei Rohingya», chiede alla comunità internazionale di «imporre sanzioni mirate contro le imprese, gli amministratori e gli azionisti di Asia World».