Entrando oggi al settimo piano del Whitney Museum, uno degli spazi che ospitano la collezione permanente nell’allestimento inaugurato lo scorso aprile, si è attratti dalla scultura di filo di ferro e ottone in quieta solitudine alla destra degli ascensori industriali voluti da Renzo Piano. L’intricata struttura – alveare complesso, costituito da una trama inesausta di nodi in sequenza ritmica – si offre infatti come filtro artificioso per fantasmagorie di ombra e luce, mentre oscilla in equilibrio, appesa al soffitto, nella cornice affilata di una delle aperture che garantiscono al museo nitore naturale, insieme a scorci mozzafiato sui grattacieli e sull’Hudson attorno a Lower Manhattan.
La trina preziosa di questa còccola, metallica nella consistenza ma informata a un’estetica organica, data agli anni cinquanta (secondo quanto recita il titolo, per l’appunto Number 1-1955) e col suo andamento sinuoso gioca quindi in anticipo sul facile, plastico dinamismo del design space age, di cui precorre perfino la divertita sfida alle leggi gravitazionali; essa è opera impalpabile di Ruth Asawa, scomparsa nel 2013 dopo una longeva attività basata a San Francisco (di origini californiane, era nata a Norwalk nel 1926), al centro di una rinnovata, crescente attenzione.
Risale al 2006 presso il De Young Museum la prima, grande retrospettiva consacrata alla sua oeuvre (parole del direttore, John E. Buchanan Jr.); e il volume assemblato per quell’evento va considerato un resoconto pioniere sul suo catalogo, con approfondimenti di studiosi, fra cui Daniel Cornell, in grado di attingere alla testimonianza diretta di Ruth, allora ottuagenaria. D’altronde, a dimostrazione del momento favorevole (anche da un punto di vista mercantile) creatosi attorno alla Asawa, si possono ricordare due altre, importanti iniziative monografiche, apertesi a New York nel corso dell’ultimo biennio. In seguito alla morte della scultrice, Christie’s ha organizzato un’esposizione tempestiva nella tarda estate del 2015, mentre si è appena chiusa una mostra presso la siderale galleria sulla Ventesima gestita da David Zwirner, a oggi unico mercante legalmente deputato a rappresentarne il lascito creativo.
Queste occasioni, pure interessate a un ampio scandaglio della parabola dell’artista (dalle giovanili prove grafiche alle più tarde commesse monumentali, fra cui le fontane per Ghirardelli Square e per la Japantower in San Francisco), hanno del resto attirato l’attenzione sulla stagione iconica della sua produzione, quella che fra la fine degli anni quaranta e l’inizio dei sessanta la vide partecipare ai corsi del Black Mountain College per poi insediarsi sulla scena della Bay Area, al fianco del marito architetto Albert Lanier, incrociato nelle classi della libera università fondata nel 1933 vicino ad Ashville per iniziativa di John Andrew Rice Jr. e Theodore Dreiser.
Giapponese di origine (figlia di una famiglia di immigrati, chiamata Aiko nel lessico quotidiano dei genitori, memore ancora della lingua di provenienza), la Asawa aveva del resto subito – dalla dichiarazione di guerra seguita a Pearl Harbor – la deportazione voluta da Roosevelt per i cittadini del paese nemico residenti su suolo statunitense; e da una condizione di esilio ‘in patria’ era uscita attraverso la permanenza presso il Milwaukee State Teachers College, al quale la ragazza era approdata nel ’43 carica di nozioni di calligrafia e di disegno apprese a Norwalk in corsi tradizionali nella sua comunità di appartenenza o in scuole americane, frequentate da bambina.
Da lì, ancor vittima di una segregazione de facto che le impedì l’arruolamento in un’accademia californiana, la Asawa continuò a formarsi attraverso due passaggi ugualmente sostanziali: da un lato i reiterati viaggi in Messico, fra 1945 e 1947, con la conseguente conoscenza della tradizione muralista e della cultura locale; dall’altra l’ingresso, quasi contemporaneo, nel college voluto da Rice, già illuminato della rilevante presenza, in veste di docenti, di Josef Albers e della moglie Anni, fuggiti dalla Germania dell’ascesa nazista e dall’inevitabile chiusura della Bauhaus.
Si tratta di incontri determinanti perché consentirono alla Asawa di riconoscere un «medium-firma» (la formula è di Robert Storr), sul quale adoprarsi attraverso un’assidua cura artigianale al fine di temperare una manualità indispensabile alla perfetta espressione delle proprie istanze formali, in fedele coerenza con la craftsmanship propugnata da Albers. In Messico entrò in contatto con la tecnica utilizzata per creare ceste in fil di ferro, di solito riempite di uova o alimenti; e tale pratica – cui è difficile non connettere un’idea di domesticità intima e al femminile – poté sembrarle utile a veicolare i precetti dell’insegnante tedesco, rivolti a favorire un’umiltà anti-romantica nell’approccio immaginativo, una necessaria confidenza con i materiali, con i loro limiti tecnici, una manualità libera e disciplinata a un tempo: principi esposti agli studenti del suo corso di Basic Design, di cui Asawa fu tra i fedelissimi, in mesi che contarono anche la presenza di Kenneth Noland e di Rauschenberg. Perfino gli effetti di trasparenza, ottenuti attraverso le reti e la giustapposizione di textures assonanti verso una sequenza stratificata in profondità, sono congruenti col magistero di Albers: stando alla cronaca di Martin Duberman sull’ambiente del Black Mountain, questi suggeriva di scandagliare la relazione fra superfici o fra patterns coerenti, sviluppando le «ambiguità percettive» di tali accostamenti.
Le enigmatiche sculture della Asawa, riscaldate dal sentimento di amorevole dedizione trasmesso dal motivo dell’intreccio (determinante poté essere l’eco del lavoro di Anni Albers), si sciolgono quindi dall’ispirazione surrealista delle riuscite alla Calder, e dialogano piuttosto con le indagini percettive di Albers e dell’Astrattismo contemporaneo. Di ricerche siffatte condividono la predilezione assieme austera e sontuosa per un’inesauribile profusione degli effetti: apparentemente monotòne, esse assommano le sfumature preziose dei metalli, dall’ottone all’acciaio, al rame, alle leghe patinate o arrugginite, insinuando nella ripetitività delle invenzioni un senso pieno della ricchezza dell’esperienza. Come catechizzava Albers, sempre nelle memorie raccolte da Duberman: «associare due elementi deve risultare qualcosa di più di una semplice addizione… e quando davvero avrai compreso che ogni colore si trasforma attraverso un ambiente modificato, capirai di aver appresso qualcosa sulla vita, oltre che sul colore».