«Ogni promessa è un debito» dice Matteo Renzi dalla tribuna elettorale di palazzo Chigi. Ogni? Il Consiglio dei ministri ha trovato i soldi per gli 80 euro in più in busta paga, ma solo per i prossimi sette mesi. Il presidente del Consiglio l’aveva annunciata come una misura «strutturale», invece non ci sarà alcun intervento sulle detrazioni Irpef. Sarà un «bonus», da misurare immediatamente con il «malus» della nuova tassa, la pesantissima Tasi. E non sarà per tutti. Sono esclusi i più poveri, gli «incapienti». Chi guadagna meno di ottomila euro lordi l’anno non avrà alcun beneficio dal decreto deciso ieri dal Consiglio dei ministri. Ancora misterioso, visto che il governo come contributo alla trasparenza ha (ri)pubblicato i tweet di Renzi.

Proprio per chi sta peggio, la promessa non vale. Resta solo il debito o meglio i debiti, quelli che devono fare per sopravvivere. Eppure anche questo era stato un annuncio chiaro del presidente del Consiglio. «Per gli incapienti troveremo una soluzione tecnica», aveva assicurato appena dieci giorni fa. La soluzione tecnica è un’alzata di spalle. «Ce ne occuperemo nella prossime settimane, mesi», ha detto ieri. Può indicare una data? «No».

Il «decreto Irpef», dunque, non contiene interventi definitivi sull’Irpef. Ma solo un buono, che Renzi non vuole si definisca «elettorale» perché sarà pagato solo dopo le elezioni di fine maggio. Intanto il primo annuncio l’ha fatto un mese fa e il secondo ieri, insieme a un po’ di interventi di prevedibile popolarità. Come la tassazione delle plusvalenze che le banche hanno registrato con la rivalutazione delle quote di Bankitalia e la fissazione di un tetto di 20mila euro al mese per gli stipendi di molti (non tutti) i manager pubblici.
Poi basta, però. Perché per esempio il retorico invito alla stampa ad andare a cercare la parola «sanità» nel testo del decreto (testo che ancora non c’è), come prova del fatto che non ci sono tagli alla sanità, è solo un trucco. I tagli infatti ci dovranno essere: 2,1 miliardi di euro per l’acquisto di beni e servizi da parte della pubblica amministrazione, di cui 700 milioni in capo alle regioni. Che avranno 60 giorni di tempo per indicare i risparmi possibili, altrimenti scatteranno i tagli lineari decisi dal ministero dell’economia. E la spesa delle regioni, com’è noto, è essenzialmente spesa sanitaria.

La gran parte dei risparmi dello stato centrale, ecco l’altro annuncio, arriveranno dalla difesa. Ma solo una piccola quota di questi (piccolissima, 150 milioni), arriverà dal programma di acquisto degli F35. Nessun ripensamento vero sui costosissimi caccia d’attacco della Lockheed Martin. Solo uno «slittamento», il che non autorizza neanche a festeggiare il taglio definitivo di un jet e mezzo (ognuno costa circa 100 milioni).

Valgono poco le altre voci del decreto riassunte alla stampa dal presidente del Consiglio – meno auto blu, ma anche metà spazio in ufficio per i dipendenti pubblici. Ma possono valere molto in termini di propaganda elettorale. Come il tanto reclamizzato taglio delle province – complicatissimo provvedimento con il quale si sostituiscono i presidenti e i consiglieri eletti con altro personale politico cooptato – che alla fine viene messo in bilancio per la miseria di cento milioni (cioè la metà di quanto si può raccogliere risparmiando sul costo vivo dei ministeri).

Tutto qui, dunque, quello che per Matteo Renzi è il «primo passo di una rivoluzione». Lui ripete ogni volta in cui gli è data l’occasione (spesso) che sta andando avanti «come un treno». Certamente da palazzo Chigi è molto attivo nella produzione di annunci, così da rimandare puntualmente il momento della verifica dell’annuncio precedente. Una promessa, allora, vale innanzitutto perché resta una promessa. Chi non ha avuto nulla oggi (o poco, o rischia di vederselo portare via in altre tasse) può sperare in domani e nel frattempo votare. Tantopiù che i binari del presidente del Consiglio sono sgombri. Non a guardare i numeri in parlamento, per la verità. Tant’è vero che solo 24 ore prima della conferenza stampa di ieri, il Documento economico e finanziario che è la cornice di tutto era finito sotto la soglia della maggioranza assoluta in senato. Ma nella presenza sull’informazione e in campagna elettorale certamente sì: significativo il fatto che Berlusconi abbia annullato all’ultimo momento il suo ritorno in televisione, previsto proprio ieri sera. Non sa o non può attaccare Renzi. Che così gli ruba anche gli argomenti.

Molto voluto e cercato è apparso infatti il passaggio di Renzi contro i magistrati. Colpevoli di aver protestato per gli annunciati tagli di stipendio – immaginando fossero rivolti alla generalità della categoria – tirando in ballo un po’ goffamente la difesa dell’autonomia delle toghe. Renzi ha avuto buon gioco a ribattere: «Non credo che portare lo stipendio di un magistrato da 311mila a 240mila euro sia un attentato all’indipendenza». Impossibile dargli torto, tanto che nell’esaltazione del gesto il presidente del Consiglio ha strafatto: «Io non commento le sentenze, loro non commentino le leggi che li riguardano», ha detto. Ma no, commentare è sempre lecito. Come promettere.