Si deve a un singolo libro, tutt’altro che «divulgativo», la svolta che nel 1992 fece di Daniel Arasse, apprezzato ma dai più ignoto specialista del Rinascimento, e studioso raffinato ma spesso labirintico, lo storico dell’arte più amato, non solo del suo paese forse. E questa popolarità senz’altro contribuì a rendere i suoi ultimi anni (prima della morte per SLA nel 2003, nemmeno sessantenne) straordinariamente fervidi. Il dettaglio. La pittura vista da vicino (tradotto da noi dal Saggiatore nel 2007) non faceva che dichiarare un metodo da tempo abbracciato: un procedimento che alterna flashback a flashforward, raccoglimenti e riprese, sprofondamenti lenticolari a improvvise aperture «panoramiche»; un cannocchiale telescopico che ogni volta isola appunto un dettaglio, lo «espande», lo collega ad altri dettagli; per infine riprecipitare sul punto di partenza, riconsegnandoci in una luce nuova l’opera così dissezionata. Questo procedimento è «storicamente condizionato»: e infatti anche l’universale, almeno tecnica, accessibilità del metodo-Arasse certo contribuisce alla sua esemplarità. Quei dettagli, nei quadri, c’erano «da sempre»: ma la loro «visione ravvicinata», e la stessa «possibilità di isolarli dal loro contesto», sono oggi «rese possibili dalla fotografia». Lo ha fatto notare Giorgio Agamben, prima di esercitare il medesimo sguardo sugli zoccoli dei Coniugi Arnolfini di Jan Van Eyck, in uno dei frammenti raccolti nel suo Studiolo (Einaudi 2020).
In uno dei ben tre libri di Arasse pubblicati di recente in contemporanea, L’ambizione di Vermeer (libro del ’93 uscito da Carocci nella traduzione di Valeria Zini ma già pubblicato nel 2006 da Einaudi, pp. 186 con 58 ill. a col. f.t., euro 28,00), il suo sguardo è doppiamente indiscreto: introducendosi non solo nelle pieghe più recondite della pittura, ma anche negli «spazi privati» che di quella pittura sono la condizione produttiva, prima che il «soggetto» rappresentato. È quello che Arasse chiama «il luogo Vermeer»: che tanti interpreti hanno equivocato, biograficamente riconducendolo alla casa borghese di Delft in cui l’artista eseguì quasi tutti i suoi dipinti. Quella stanza dal pavimento a scacchiera, quella parete di fondo con carte geografiche o strumenti musicali, quella finestra dalla quale spiove sempre la medesima luce: questi «interni calmi e puri come specchi» (come li definì Jean-Louis Vaudoyer, in articoli che saleranno il sangue a Proust) sono in realtà minuziosamente trasfigurati dall’artista. Il quale produce un’intimità massima, e quasi perturbante, che non coincide però con la sua intimità (Svevo a Montale: «un’autobiografia, ma non è la mia»).
Il titolo del libro più teorico di Arasse, Il soggetto nel quadro (1997, con attenta cura di Sara Longo, ETS 2009), è implicitamente polemico nei confronti della tradizione iconologica. Il vero soggetto non è il «contenuto» e neppure il «significato» del quadro, in termini panofskiani, bensì il suo autore: «come il Dio cristiano, invisibile nel mondo visibile che ha creato dal suo amore e che illumina con la sua luce». Per Leonardo la mente del pittore era «una similitudine di mente divina»: e anche la pittura di Vermeer, a dispetto delle apparenze, è per Arasse «cosa mentale».
Proprio quella di Leonardo è stata la guida, appunto mentale, lungo tutto il percorso di Arasse. Sicché al centro del trittico delle sue ultime uscite italiane spicca Leonardo Il ritmo del mondo (traduzione di Cristiano Screm, Jaca Book, pp. 448, ill. a col., euro 40,00), la grande monografia del ’97 che rappresenta la summa dello stile, analitico prima che di scrittura, del suo autore. Il quale prima ricostruisce – censendo lo sterminato repertorio dei disegni e dei codici manoscritti – la «rete dei saperi» cui rinvia la sintesi araldica dell’Uomo Vitruviano, senza trascurare nessuno dei «vinci» («vimini» e, per traslato, «vincoli», «legami») cui già al suo tempo veniva ricondotto il suo nome; e solo in un secondo momento affronta il repertorio pittorico. Ne esce l’immagine di un cosmo dominato dal ritmo: un «flusso ininterrotto» in cui «risiede l’unità intima e fondamentale delle sue diverse creazioni», spesso incompiute perché perennemente riprese e rilanciate in avanti. È un «percorso spiraliforme» quello per il quale Arasse mutua uno splendido sintagma dell’«omo sanza lettere», che anche la lingua reinventava mirabilmente: un «revertiginoso dechomposto», nel quale gli apparenti «arretramenti sono anche dei progressi». Nella Gioconda, per esempio, revertiginosamente precipitano le acquisizioni sull’architettura, sulla fisiologia del volto, soprattutto sulla natura idrogeologica e atmosferica del paesaggio; e si conferma «l’intuizione fondamentale di Leonardo: l’analogia tra la natura e l’essere umano, tra il macrocosmo e il microcosmo».
Inevitabilmente da questa «prospettiva» Arasse legge quello che è per lui l’immenso arrière-pays di Leonardo ne L’uomo in prospettiva I primitivi italiani, opera giovanile del ’78 riproposta da Catherine Bédard e Jean-François Barrielle nel 2008 (e ora da Einaudi riprodotta con fasto tipografico – ma con l’Antonello in copertina fuori fuoco – nella traduzione di Luca Bianco, pp. XVI-307, ill. a col., euro 85,00). Già a quest’altezza l’impianto nega ogni sequenza cronologico-storicistica per un doppio montaggio incrociato: l’enucleazione dei «temi» si alterna con le schede (spesso mirabili) sulle singole opere, a loro volta metonimicamente collegate come le numerose che preludono al ben più maturo libro, di vent’anni dopo, sull’Annunciazione italiana (La casa Usher 2009). Da qui traggo queste righe di Henri Focillon (ma con evidenti sintonie warburghiane, blochiane e benjaminiane): «la storia non è unilineare e puramente successiva»; è «un conflitto tra (…) sopravvivenze e anticipazioni, forme lente e ritardatarie contemporanee a forme audaci e rapide. (…) La storia non è una successione ben scandita di immagini armoniche, quanto piuttosto (…) diversità, contaminazione e conflitto».
Non potendo sprofondare nel dettaglio monografico, Arasse applica al «disegno storiografico», qui, il principio del revertiginoso dechomposto. Polemizzando con la main narrative fondata dal Vasari, perde di significato l’implicita svalutazione teleologica (o, viceversa, puristica feticizzazione) della categoria di primitivo: le controspinte «ritardatarie» di Luca Signorelli o Paolo Uccello sono espressioni dei «tanti Rinascimenti diversi», delle diverse forme di modernità in conflitto di quel tempo straordinario. Così Arasse sperimenta il proprio modello anacronistico, solidale ma distinto rispetto a quello che verrà messo a punto da altri autori e altre scuole (Anachroniques sarà il titolo dei suoi testi sull’arte moderna e contemporanea, raccolti da Cathérine Bedard nel 2006 da Gallimard).
Esemplare la lettura dei maestri dell’«Officina Ferrarese», la cui figurazione più eloquente è la Madonna con Bambino alla National Gallery di Edimburgo (data a Francesco Del Cossa o Ercole de’ Roberti; Longhi proponeva Guglielmo Giraldi) sulla quale il libro si conclude. Una figurazione «arcaica», immobile e stupefatta, è iscritta in una mise en abîme di impressionante modernità, il trompe l’œil di una tela lacerata i cui brandelli restano sul telaio: una pittura «superata» che dà luogo a una «nuova». Ma l’icona «vera» da riscoprire, in realtà, è «precedente» a quella lacerata e, in senso diverso, «superata». Cosa dunque è davvero nuovo, cosa davvero originario?