La tela narrativa di Anthony Trollope è tessuta con filato forte, anche quando il personaggio si trovi in momenti imbarazzanti o drammatici, sotto lo sguardo ironico dell’autore. Scrisse Henry James: «Il suo inestimabile merito fu conferire gran valore alle solite cose (the usual) … Sentiva tutto il giorno e immediatamente le cose come le vedeva; le vedeva in modo semplice, diretto, sobrio, con la loro tristezza, la loro allegria, il loro incanto, la loro comunicabilità, il loro significato ovvio e riconoscibile». Aggiungerei ai meriti innati una vita attiva (1815-1882) che gli permise di testimoniare certi profondi mutamenti del secolo vittoriano. E anche la singolare professione di dirigente delle Poste inglesi e irlandesi, in un tempo in cui nel Regno Unito la corrispondenza poteva arrivare due volte al giorno. Scrivere e leggere lettere era compito e privilegio delle classi abbienti che scrivevano furiosamente – anche entro la cornice di romanzi ‘realisti’ (Dickens, Thackeray, Collins…). Un fiume di storie scorreva tra le attente dita del dirigente postale: la vita muta trascritta in modo semplice e rapido nel quadratino della lettera. Affetti, ricordi, promesse, notizie di amici e parenti, di nascite e morti.

Scrisse nell’autobiografia: «(l’autore) desidera che i lettori siano intimi delle creature della sua mente … devono sapere se sono fredde o appassionate, sincere o false, e in che misura … ho vissuto coi miei personaggi e da questo deriva il successo che riesco a ottenere». Abitò a lungo in Irlanda, quasi vent’anni, la percorse tutta, si innamorò della gente, della cultura presente e passata, e sperò di poter offrire un contributo per risolvere la difficile situazione politica. Era il mediatore ideale, essendo inglese, educato nelle scuole migliori e dalla madre scrittrice, ma di famiglia povera. «È un destino per me di essere in tanta familiarità con l’Irlanda che quando incontro un irlandese all’estero lo sento a me più vicino che un inglese». Trollope fu una figura chiave nel tentativo di unificare le due nazioni nel momento più drammatico della loro storia, secondo la tesi di John McCourt, nato a Dublino, docente di letteratura inglese e rettore dell’università di Macerata (Writing the Frontier: Anthony Trollope, Oxford University Press, 2015).

Nel 1845 la Fenian Brotherhood fu fondata negli Stati Uniti da immigrati irlandesi, ed ebbe inizio quel movimento insurrezionale che avrebbe lottato per una libera Irlanda fuori dal Regno Unito. Il nome del mitico eroe Finn (scritto in varie grafie, anche con il «Ph» inglese che perversamente sostituiva l’originario «F») garantiva l’antico diritto alla libertà dell’isola di smeraldo. Il terrorismo feniano minacciava Londra con una serie di attentati contro le carceri in cui erano detenuti i militanti irlandesi, e nel 1867 morirono più di cento persone nell’esplosione della prigione di Clerkenwell. Due anni dopo uscì il primo romanzo «irlandese» di Trollope, Phineas Finn, the Irish Member, un titolo che era già un messaggio, pubblicato da Sellerio nel 2018, a cui segue ora – sempre nella collana «La memoria» – Il ritorno di Phineas Finn (Phineas Redux, 1874), entrambi tradotti da Rossella Cazzullo, voce italiana di Trollope che firma anche una «Notizia» finale (pp. 913,€ 20,00). Fu per scelta di Elvira Sellerio che lo scrittore aveva trovato la sua dimora italiana nella casa editrice che finora ha pubblicato ben 14 dei suoi 74 romanzi.

Phineas Finn, «il nostro eroe» che torna anche in racconti minori, è un giovane, ambizioso irlandese, cattolico, sebbene la sua famiglia sia protestante, figlio di un medico di campagna, che tuttavia ha studiato al Trinity di Dublino, l’università protestante. In politica è liberale, e vorrebbe entrare in Parlamento. «Era alto sei piedi, e molto bello, con brillanti occhi blu, e capelli castani ondulati, e una setosa barba chiara. La signora Low aveva detto al marito più di una volta che era di gran lunga troppo bello per combinare qualcosa di buono». La signora aveva visto giusto, e il primo volume si chiude col suo fallimento politico, ma non di seduttore. Il ritorno sulla grande scena metropolitana avverrà con più fermo proposito e affinata esperienza. Non è un eroe senza macchia e senza paura, e tornato a Londra per riprendere il tentativo fallito nel recente passato, riflette sulla difficoltà di tentare di nuovo la scalata del successo politico e mondano con pochi soldi in tasca. Che una volta finiti «si sarebbe trovato indigente, con il mondo davanti a lui come un’ostrica chiusa da aprirsi di nuovo, e lui sapeva – nessuno meglio di lui – che quell’ostrica diventa sempre più difficile da aprirsi quando l’uomo che deve aprirla diventa più vecchio. Si tratta di un’ostrica che si richiuderà con un colpo secco, dopo che vi avete ben infilato il coltello dentro, se solo per un attimo ne ritirate la punta. Lui aveva già avuto un duro scontro con l’ostrica, e aveva raggiunto la perla nella conchiglia. Tuttavia, l’ostrica che aveva avuto, non era l’ostrica che voleva…» (Il ritorno, p. 21).

Il narratore onnisciente, anche lui desideroso di successo, non aveva previsto per Phineas Finn la terribile Clerkenwell, ma lo splendore della Londra vittoriana, il palcoscenico mondano, la caccia alla volpe, le strategie della politica, la variopinta corte di signore e signorine che soccorrono Phineas, meravigliosamente acconciate dal sardonico autore. «Le donne vengono spesso paragonate ad animali o si parla di loro come se animali fossero – osserva Rossella Cazzullo nella sua “Notizia” che tenta di riallacciare quel passato al nostro presente –; sono cavalle da far trottare fuori da un edificio, vespe fastidiose e gatte che soffiano; il che ci dice molto sul modo di percepirle che appartiene a un tempo non così lontano». Unica costante tra ieri e oggi è l’uomo politico, Phineas con il suo mondo che è facile prevedere continuerà fuori dal romanzo, nella storia vera, sempre uguale a sé stesso. «Un bevitore o un giocatore – conclude Trollope – possono venir allontanati dalle loro abitudini, ma non un politico».

Intanto a Dublino, dove i vescovi cattolici appoggiavano gli insorti, si era deciso di aprire un’università cattolica, affidata ai gesuiti, e Gerald Manley Hopkins fu coinvolto come professore di letterature classiche. Da quell’«esilio», secondo la sua espressione, scrisse nel 1887 all’amico Robert Bridges: «È sempre stato il difetto della massa degli inglesi di non sapere niente e infischiarsene dell’Irlanda, lasciando che le cose andassero come volevano, che, in tal caso, è stato persecuzione, avidità, oppressione. E ora, non appena questa gente si sveglia e si risente dei torti che l’Inghilterra ha commesso, fa come quella dama in Mark Twain che ‘scoppia in lagrime, e manda un parasole di seta rossa e una scatola di forcine sul teatro di guerra’».