Tornata in auge dopo un silenzio che datava dagli anni Venti e che era anche un giudizio di insufficienza teorica, l’empatia ha trovato sul finire del Novecento un terreno di coltura inatteso nelle neuroscienze, che hanno riabilitato alcuni dei suoi lati più critici e dato impulso a un ripensamento della soggettività che articola in modo inedito i processi emozionali e cognitivi. Da argomento di nicchia, è divenuta così uno straordinario attivatore di relazioni interdisciplinari: non solo tra psicologia (anche sperimentale) e filosofia (soprattutto morale), psicopatologia e antropologia, ma anche tra queste e biologia evoluzionistica, paleontologia, neuroscienze in generale. Un numero impressionante di ricerche e di titoli.

Ma come l’età dell’empatia è rapidamente trascolorata nell’età del risentimento, così anche la ricerca – teorica ed empirica – ridimensiona gli entusiasmi, fa emergere dubbi e rettifiche, si applica a illuminare criticamente bordi prima rimasti in ombra.

Anna Donise arriva a mettere a punto una impegnativa Critica della ragione empatica Fenomenologia dell’altruismo e della crudeltà (il Mulino, pp. 303, € 26,00) mantenendo pienamente quel che nel titolo promette. Senza contentarsi di segnalarne l’equivocità, Donise si incarica di sottoporre il concetto di empatia a un esame rigoroso, che ne ridefinisce il recinto di corretto utilizzo (le possibilità e i limiti, à la Kant), ne riduce severamente le pretese e approda a una teoria dell’empatia di nuovo conio. Teoria che si dice stratificata per il modo in cui sistema nuovi e vecchi argomenti su diversi piani – «come in una casa» – obbedendo a una precisa «legge di fondazione» che fa di ciascuno la condizione necessaria (ma non sufficiente) del successivo.

L’andamento si vuole fenomenologico e lo è in più di un senso: per il suo limitarsi a descrivere la relazione empatica come si presenta in sé, fuor di psicologismi e assunti teorici, e per il generoso appello agli argomenti elaborati dalla linea fenomenologica – da Husserl a Stein, da Scheler a Jaspers e Merleau-Ponty, fino alle loro molteplici riprese contemporanee presso autori quali Nussbaum o Zahavi.

In tema di empatia, peraltro, questa linea non condivide una teoria unitaria – Husserl stesso pur avendo lavorato al concetto per oltre trent’anni non giunge a pubblicarne una teoria – e pare concordare semmai su un unico punto polemico: la critica alla concezione di Theodor Lipps. Con un vistoso capovolgimento di prospettiva, la teoria di Donise si caratterizza proprio per un deciso ritorno a Lipps: campione della linea otto-novecentesca dell’Heinfühlung, che ripensa il kantismo in termini psicologici, egli elabora un concetto di empatia come modo d’essere della soggettività e via per conoscere il mondo nella sua connotazione emozionale: «è questo l’elemento interessante dell’impianto di Lipps e il vero contributo che può dare a una riflessione attuale sull’empatia: è grazie al fatto che siamo soggetti dotati di capacità empatiche che noi entriamo in contatto con le qualità degli oggetti, quelle che la scienza della natura classicamente intesa non considera rilevanti, ma che connotano di fatto il nostro mondo umano».

Un acrobata si muove sul filo e vado in vertigine solo a guardarlo; un volto che ride mi invita al sorriso; sento allegro il giallo di Kandinskij e tranquillo quel paesaggio, noioso il marito di Anna Karenina. Non si tratta di qualità momentanee, ma della capacità tutta umana e quotidiana di entrare in risonanza empatica con il mondo.

Solo attraverso uno sforzo teorico possiamo separare queste esperienze dalla percezione sensibile e da quella interiore: la difesa di Lipps procede di pari passo, in questo libro, con la messa a punto di acuminate biforcazioni concettuali che consentano il passaggio, ora più ora meno agevole, al piano superiore della teoria: dal primo strato fusionale e arcaico, che precede la distinzione io-tu, all’emergere dell’alterità come tale, fino a un’empatia che si arricchisce di elementi cognitivi mano a mano che diventa capace di collocare l’altro in contesto o di integrare l’immaginazione per relazionarsi con gli speciali soggetti dei romanzi. All’apice si colloca la simpatia, che associa al sentire e comprendere l’altro anche una sorta di condivisione partecipativa.

Nel corso del processo, viene formandosi anche la soggettività, che non è già fornita e tornita all’inizio dei giochi, ma si struttura proprio attraverso la relazione intersoggettiva, nella condivisione di un mondo comune. Attenzione però: benché fonte di una conoscenza inaggirabile e preziosa, la relazione empatica non mette al riparo dall’inganno e dall’errore: non la relazione con gli oggetti, che può sempre -– e non solo durante la vita infantile – prendere la curvatura dell’animismo; e tanto meno la relazione con altri soggetti sui quali tendiamo a proiettare vissuti che sono unicamente nostri.

Al pari di Lipps, Donise tiene a mostrare che l’empatia non supera mai l’esame di verità e che solo il kantiano vaglio della ragione può correggere le sue prospettive egocentrate: l’empatia «non è necessariamente alleata né dell’altro uomo né dell’universalismo dei diritti; anzi rischia di spingerci a essere parziali e partigiani». Di più: nessuna linea innesta automaticamente l’empatia nella moralità. Contro i fautori di una relazione diretta tra patologia psichica e fallacia empatica – primo fra tutti Baron-Cohen che collega la crudeltà a una sorta di «erosione empatica» – Donise insiste nell’affermare che sapere e sentire cosa l’altro prova non è garanzia di partecipazione simpatetica.

E come dietro a Lipps era comparso il profilo di Kant, così dietro a Kant si intravede la simpatia settecentesca non di Adam Smith, bensì di Hume, il grande risvegliatore dai sonni dogmatici: la sua simpatia è principio psicologico neutro, che sta alla base di tutte le passioni umane e non solo di quelle positive. Anche i carnefici sono empatici sopraffini, come il divino marchese insegna, e l’empatia può essere, anziché antidoto, una «preziosa alleata della crudeltà».