Giovedì la Turchia ha sospeso l’accordo di riammissione dei migranti con la Grecia, colonna portante dell’intesa che Ankara ha raggiunto con l’Unione europea: sei miliardi di euro in cambio del lavoro da cane da guardia delle coste europee. L’accordo con Atene prevede il rimpatrio in Turchia dei migranti arrivati sulle coste elleniche.

A monte della rottura ordinata dal presidente Erdogan c’è di nuovo il fallito golpe del luglio 2016: lunedì una corte greca aveva rilasciato otto soldati turchi (in attesa di risposta alla domanda di asilo), fuggiti dal loro paese perché accusati di aver preso parte al tentato colpo di Stato e di cui il governo turco chiede l’estradizione.

Ankara minimizza: «Abbiamo un accordo bilaterale (con la Grecia), abbiamo sospeso quello», ha detto il ministro degli Esteri Cavusoglu, aggiungendo che la più ampia intesa con la Ue non sarà rivista. L’accordo con i greci, pilastro della politica di rimpatri della Ue, è stato però firmato nel 2016 nell’ambito dell’accordo Turchia-Ue: negli ultimi due anni sono stati 1.209 i migranti irregolari deportati in Turchia.

La questione, dunque, è molto più ampia. Non a caso ieri è intervenuto il segretario generale della Nato (di cui entrambi i paesi sono membri) Stoltenberg che ha chiesto alle parti «moderazione e calma» e fatto sapere di aver discusso con il governo greco e con Erdogan. La sua ampiezza risuona nelle parole dello stesso Cavusoglu che definisce il rilascio dei soldati frutto delle «fortissime pressioni sulla Grecia da parte dell’Occidente».

Ma le relazioni tra i due vicini sono tese da tempo immemore, dalla crisi di Cipro fino all’ultimo caso: a febbraio una motovedetta turca speronò un pattugliatore della guardia costiera greca al largo delle isole Kardar-Imia, tuttora contese.