Anche ieri la contabilità dei morti sul lavoro si è confermata purtroppo affidabile. Tre incidenti mortali al giorno in media, dicono le statistiche e così è stato anche venerdì. Solo che dietro i numeri ci sono le storie. Come quella di Angelo Giardina, 21 anni. Morto travolto da un carrello elevatore mentre era al lavoro in un capannone di un’impresa che produce calcestruzzo. Una delle ipotesi degli inquirenti è che il carico che il ragazzo stava trasportando possa avere sbilanciato il mezzo.

L’area è stata sequestrata e la Procura di Agrigento ha aperto un fascicolo per omicidio.

A Minturno, intanto, un suo coetaneo, Francesco Pulcherini perdeva la vita in un incidente simile. Il giovane stava lavorando nei campi quando è rimasto schiacciato dal ribaltamento del trattore. Pulcherini è la quarta vittima sul lavoro nelle ultime settimane in provincia di Latina.

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A Trezzo sul Naviglio, ieri mattina, un operaio della Italgen è caduto nel fiume Adda mentre lavorava su un canale scolmatore. Claudio Togni, 58 anni, indossava un’imbracatura che però si sarebbe staccata. La stessa imbracatura, molto pesante, gli avrebbe impedito di galleggiare. «Tre morti al giorno sul lavoro in Italia non sono una cosa normale», ha commentato il segretario provinciale della Cgil di Agrigento, Alfonso Buscemi. Ma la certificazione di normalizzazione arriva dai dati Inail che confermano l’aumento delle denunce di infortunio sul lavoro. Al 31 maggio del 2024 sono state 251.132, più 2,1% rispetto a maggio 2023. I decessi sono stati 369 con un incremento del 3,1%, determinato, secondo Inail, dagli incidenti mortali plurimi. Se diminuiscono le denunce dei lavoratori italiani (da 296 a 290), aumentano quelle degli extracomunitari che passano da 52 a 61. Al ministero del Lavoro e delle politiche sociali non sono sembrati dati eclatanti. «È una fotografia puntuale ma provvisoria, che andrà valutata nel suo complesso su un arco temporale più ampio», hanno commentato dallo staff della ministra Calderone. Secondo i funzionari gli open data Inail sarebbero dovuti ai criteri «larghi» che usa l’Italia per includere i singoli casi nelle statistiche rispetto ad altri Paesi europei, ragion per cui «il loro confronto richiede cautele».