Torno sulle canzoni di Paolo Pietrangeli dando seguito alle considerazioni su Contessa che svolsi la settimana scorsa in questa rubrica. Sono persuaso che l’opera di Paolo Pietrangeli autore di canzoni, che è venuta compiendosi nel corso di alcuni decenni a far data dalla metà degli anni Sessanta, meriti una attenzione non fosse altro che per la costante qualità della ricerca musicale e per la riconoscibile continuità di ispirazione e di poetica.

In una canzone le parole non stanno e non ha senso pieno la frase senza il motivo musicale che le induce e che, a sua volta, dalla parola e dalla frase musicata, traggono, quelle note, sostegno e coerenza. Gravissimo e imperdonabile errore allora, è impostare una qualsiasi analisi critica, stilare una chiosa e formulare un giudizio su una canzone tenendo separato ciò che non è possibile scindere. Una regola scontata, ma che è bene tenere ferma. Si dica che qui sta la difficoltà, e non da poco.

Nel caso di Pietrangeli il commentatore è facilitato, forse: musica e parole affiorano simultaneamente; senti tornare alcune volte a mera sillabazione il verso e dalla sillaba attestarsi nuovamente il ritmo in una relazione variata nell’arco del medesimo componimento. Una sorta di felicità creativa: «T’accosti ti scosti/ti torni a accostar/canzone canzone canzone/ti voglio cantar», recita Allegra canzone composta nel 1974.

Si è molto insistito nel sottolineare come possano, quelle musiche e quei testi, costituire una sorta di ‘colonna sonora’ tale da accompagnare, come meglio non si potrebbe, propositi, comportamenti, situazioni pubbliche e privati sentimenti della generazione di Pietrangeli. La generazione che perentoriamente prese campo, imponendosi, nel 1968, dilagando veloce con caratteri che parvero d’una incontenibile innovazione politica e forse piuttosto furono (si son rivelati), quelli che venivano attestandosi, componenti e ingredienti misti e in fusione destinati a disporre elementi e preparare convenzioni nuove, di qua e di là dell’Atlantico, promosse secondo un immaginario teso ad una radicale mutazione delle gerarchie, dei costumi e dei consumi. Da una angolatura strettamente politica, va detto, l’immaginazione non si fece potere.

Ci si fece, tuttavia, un’idea immaginaria del potere. Lo si ridusse così alla misura che si può contenere in uno slogan, in una frase da scandire correndo i giovani, se non spensierati forse, mano nella mano, felici. Se ne fecero, del potere, riduzioni e semplificazioni tali da essere, sotto spoglia di opposizioni irriducibili e supreme (dal flower power alle Brigate Rosse), con il potere perfettamente compatibili (alla fine, certo, e non senza vite perdute) e dentro i termini del potere perfettamente gestibili.

Per chi intende, come io mi propongo qui, ragionare sulle canzoni di Pietrangeli, spero non apparirà questa mia una divagazione: prendo spunto dai ventenni degli anni Sessanta (appartengo alla medesima generazione del nostro autore) e mi faccio trascinare in una sorta di consuntivo a spanne del mezzo secolo dal 1968 ad oggi. È che Pietrangeli scrive le sue prime canzoni, autore precoce, fin dagli esordi degli anni Sessanta (Contessa è del 1966. Del 1959 Non è giusto non era previsto; del 1961 Gregorio Magno, Allegoria: il padre di famiglia e La pillola), e continua dai Settanta al 2021 a comporre e a scrivere e l’opera sua (la colonna sonora?) ha a che fare con i decorsi, per dir così, successivi al Sessantotto e con quanto è venuto dipanandosi, per dir così, nel pubblico e nel privato nel corso delle nostre vite.

Significativamente Pietrangeli, nel suo romanzo Una spremuta di vite apparso per l’editore Navarra nel 2014, riflette: «Nell’ottobre del 1967 in un teatro off-Broadway va in scena Hair, il musical di James Rado e Gerome Ragni. Il tema più celebre canta: Let the Sunshine In, lasciate che il sole sorga. Icona perfetta del 1968 e dintorni. C’eravamo sbagliati tutti: il sole non stava entrando ma avviandosi all’uscita; non era l’alba di un’epoca, ma più probabilmente il suo tramonto». A questa luce potremo forse bene intendere la vena che alimenta l’opera Pietrangeli.