È una «Flower girl», una giovane fioraia, come in uno dei cult della cinematografia coreana – in questo caso quella peculiarissima del Nord – e del suo essere riflesso della accidentata storia del Paese, nonché della sua scissione. Era il 1972, e nel film di Pak Hak, ambientato agli inizi del ‘900, quando ancora la frantumazione in due Stati non era avvenuta, da ragazza dei fiori diventava combattente nella resistenza contro l’aristocrazia vessante e contro l’occupazione militare giapponese. Adesso, in Sunshine, opera seconda del regista sudcoreano Park Jin-Soon (incastonata nella sezione «off Independent» del Florence Korea Film Festival (11-18 marzo) diretto da Riccardo Gelli dell’associazione Taegukgi Toscana, oltre a vendere omaggi floreali, a fare consegne di strampalati biglietti di accompagnamento, è una illustratrice, writer di graffiti e murales. Difficile non notarla mentre dipinge, indossando un casco integrale, quando invece, nel prologo coloratissimo – unica parte di cinema d’animazione del film – l’avevamo scorta che tratteggiava il faccione del dittatore del Nord, così da intuire il perché del suo nascondersi, ora che dopo la sua fuga nell’altra Corea, dal suo pennello si schiudono le ali di una miriade di pappagalli. Da piccola, durante una gita allo zoo con la sorella più piccola, dall’altro lato del 38 parallelo, della ferita da cui si dipartono le due Coree, aveva atteso invano che volassero. I toni iniziali sono aerei leggeri, ricchi di luce e tinte profumate. Un regista televisivo le propone insistentemente di fare un documentario sul suo lavoro come graffitista, la prega, la insegue, la lusinga, l’aspetta dormendo tra fiori e piante … Sembrerebbero ritmi e danze da commedia sentimentale, pure qualcosa stride, e lo si avverte fin dai rifiuti di Seol –ji (significa: nata per essere famosa e gentile), che poi inevitabilmente finiranno per volgersi in assenso… Quello che punge è l’ambiguità di lui – con l’acqua alla gola nel lavoro e con l’idea di riscattarsi scoprendo la Baquiat della Corea del Nord, anche a costo di forzarla all’assurdo di cercare di ripetere la Pop art (ma lo sa che sta facendo una parodia di una parodia? gli controbatterà una collega) – il cinismo di lui che cozza con il dolore nostalgico di lei per la famiglia rimasta dall’altro lato, per una integrazione mai avvenuta (come nel tracciato da noi recentemente conosciuto di Hyeonseo Lee, La ragazza dai sette nomi, testimone e narratrice della sua fuga dal Nord). Eppure, malgrado una tela disarmonica e imperfetta, questa è la dimensione più radiante di Sunshine: l’anima e dunque l’arte di Seol – ji, pur sola strumentalizzata, violata anche nell’anonimato che aveva chiesto alla troupe, non potrà fare a meno di trascolorare, nel senso letterale del termine, di risplendere. Di sfumature di delicatezza di poesia. Sarà come le altre magnifiche artiste dell’illustrazione coreana, come Suzy Lee, o Obsidian. E il senso di colpa per il destino terribile toccato a colei che le è più cara (presenza assenza nelle sue giornate), sarà un grande murale, due sorelle, forse due Coree, in un unico potente affresco inseparabile.