«La verità non è mai stata guardata nuda. Finzione, favola, racconto, mito, ecco i travestimenti con cui gli uomini l’hanno sempre conosciuta e amata». Questa osservazione di Anatole France, nom de plume di Anatole-François Thibault (1844-1924), si può configurare come una vera e propria dichiarazione di poetica, avente a che fare con una vastissima produzione narrativa che annovera titoli importanti come Thaïs, Gli dèi hanno sete e la tetralogia dell’Histoire contemporaine, imperniata sul personaggio di Monsieur Bergeret. Partito da posizioni parnassiane e da un acceso antinaturalismo, France, autore quanto mai prolifico, si è orientato in seguito verso la stesura di romanzi, racconti e saggi che furono molto celebrati, tanto da diventare accademico di Francia nel 1896 e conseguire il premio Nobel per la letteratura nel 1921. Dopo la scomparsa è subentrato l’oblio, causato soprattutto dall’ostracismo che opposero alle sue opere i surrealisti. France, insieme a Claudel e Barrès, rappresentava infatti ai loro occhi lo scrittore passatista per antonomasia. Nel 1924, alla sua morte, pubblicarono un pamphlet, emblematicamente intitolato Un cadavre, che tendeva a suggellare, con toni violenti e denigratòri, la presa di distanza rispetto all’attività «di un personaggio così comico» (Breton), che faceva pensare «a un cadavere cui è stato asportato il cervello» (Soupault), al «volto della morte» (Éluard). Aragon rincarava la dose: «Per me ogni ammiratore di Anatole France è un essere degradato».
Carico di onori e gloria, France incarnava, agli occhi dei surrealisti, tutto ciò che di conformistico e reazionario rappresentava la cultura ufficiale francese nel primo ventennio del secolo, intrisa di quell’atteggiamento pedantesco e distaccato tipico dell’accademico (ma si consideri, al riguardo, anche le riserve avanzate da Gide, secondo il quale era uno scrittore «senza inquietudine di cui si capisce tutto subito»). Eppure, a ben guardare, le prese di posizione di France, soprattutto in ambito ideologico, non erano inconciliabili rispetto al credo professato da Breton e dai suoi seguaci: socialista della prim’ora, non esitò ad affiancare il «nemico» Zola nel famoso affaire Dreyfus e salutò la rivoluzione russa del 1905 con toni entusiastici. È perciò da ricercare sul piano letterario, e ancor più in quello del gusto, l’avversione così ostentata dai surrealisti. Il genere stesso del romanzo, in cui France eccelleva, era stato bandito dall’universo bretoniano, e il classicismo presente nei suoi libri, l’«apologia dello scetticismo» di cui parlava Sciascia, non potevano che indisporre chi voleva fare dell’esistenza un’opera d’arte, cambiando radicalmente le regole del gioco: dai «sonni ipnotici» all’impegno politico, dalla beauté convulsive alla scoperta dell’inconscio freudiano.
Bisogna inoltre considerare che il retaggio di France era di chiara ascendenza ottocentesca. È perciò in ambito stilistico che i surrealisti rimproveravano all’autore di Crainquebille di non rappresentare adeguatamente quella modernità che le avanguardie storiche (dai futuristi ai dadaisti ai surrealisti stessi) tendevano a stigmatizzare attraverso le tecniche e i proclami più disparati. Non è un caso che France costituisse il principale modello di Bergotte, controverso personaggio della Recherche, e fosse l’autore nel 1896 della prefazione a Les Plaisirs et les jours. In tale sede scriverà, a proposito di Proust, che «vi è qualcosa di un Bernardin de Saint-Pierre depravato e di un Petronio innocente».
L’editore Lindau ora ripropone l’ultimo romanzo di France, La rivolta degli angeli («Biblioteca di classici», pp. 304, € 19,00), recuperando la traduzione di Alessandra Baldasseroni allestita per Sansoni nel 1966 e arricchendola delle illustrazioni di Carlègle (il libro ha conosciuto diverse versioni italiane, tra cui quella pubblicata da Meridiano Zero nel 2004). Si tratta di una sorta di apologo, edito nel 1914, che ebbe un discreto successo, tanto da vendere in sei settimane sessantamila copie, come avverte Sergio Zoppi nell’introduzione. La trama, ambientata a Parigi, ha a che fare con le stralunate vicissitudini del giovane Maurice d’Esparvieu e del suo angelo custode, Arcade, che decide di dimettersi da tale incarico dopo essersi palesato al suo beniamino. Coalizzato con altri angeli che hanno preso sembianze umane, Arcade vuole destituire Dio, chiamato di volta in volta il Demiurgo o Yaldabaoth, spacciatosi a torto come creatore dell’universo. Si vengono così a creare tutta una serie di situazioni equivoche e paradossali, che un po’ ricordano certe dinamiche retrò dei film comici muti, fino allo scontro finale tra le schiere angeliche di Satana e quelle di Yaldabaoth. Osservava Jean Levaillant: «Satana, in La révolte des anges, vincitore nell’assalto contro il cielo, rinuncia al potere che i servitori del Dio sconfitto gli offrono in qualità di complici: nulla sarà mutato».
Ma la compostezza e lo scetticismo di France rimangono circoscritti in un ambito superficiale e le varie vicissitudini dei personaggi sconfinano a volte nel bozzettistico, senza mai aderire, neppure in chiave metaforica, a una realtà che sembra muoversi su un altro piano rispetto alle vicende narrate. Lo stesso humour, la stessa ironia franciana hanno qualcosa di stucchevole e anacronistico. Inoltre lo sfoggio di erudizione che, nel caso del Procuratore della Giudea (1902), poteva risultare funzionale all’economia del racconto, qui si risolve in una sequela di digressioni di carattere teologico o mitologico che appesantiscono la fruizione del testo. Come in altri suoi titoli, a cominciare dal Crime de Sylvestre Bonnard (1881), le vicende iniziali dedicate al bibliotecario Sariette si riallacciano al mondo della bibliofilia, di cui France era un estimatore. Lo stesso intento pacifista professato dall’autore (si era alla vigilia della Grande Guerra) convince solo in parte, in considerazione del fatto che risulta una presa di posizione «asettica», tesa a non inficiare le sue direttive ideologiche.
«France resta un dilettante anche quando abbandona lo stato iniziale di “giuoco”, anche quando riesce a vedere con chiarezza la situazione reale delle cose, il prevalere della menzogna nei rapporti sociali e sente il richiamo irrefrenabile di certe situazioni angosciose: c’è di più, resta dilettante anche quando scende in campo e si batte a favore di Zola o del socialismo nascente», osservava Carlo Bo in un testo del 1959. Aggiungendo: «A ben guardare fra Le Lys rouge (1884) e L’isola dei pinguini (1908) non c’è progresso, ciò che muta è ancora una volta lo scenario, ma la posizione centrale dello scrittore verso la vita è la stessa». Come a dire che non si riscontra nella sua opera alcun tipo di significativa evoluzione.
La rivolta degli angeli presenta notevoli analogie, non solo sul versante strutturale, con L’isola dei pinguini, stampato qualche anno prima. Paragonato da alcuni critici benevoli a classici della distopia come La fattoria degli animali di Orwell o Il mondo nuovo di Huxley, questo romanzo satirico, apprezzato da intellettuali d’eccezione come Conrad, Benjamin e Jung, anticipa le tematiche del libro del 1914. La comunità (angeli o pinguini, non importa) intraprende una lotta che vorrebbe aderire a presupposti di carattere sociopolitico, senza riuscire ad avvincere o commuovere il lettore. Bo suggeriva, a ragione, come i testi più convincenti di France andassero ricercati nelle prose di carattere memorialistico, da Le livre de mon ami (1883) a La vie en fleur (1922). A noi non resta che ricordare il «crudele» epicedio composto da Breton: «Togliamo, se vogliamo, da una delle cassette che si trovano sul lungosenna i vecchi libri “che amava tanto”, rinchiudiamoci dentro il suo cadavere e gettiamo il tutto nella Senna. Neppure da morto quest’uomo deve fare più polvere».