«La forza di un poeta si misura, lo sappiamo sempre meglio, non tanto o non già dalla sua unicità o irripetibilità, quanto all’inverso dalla sua capacità di essere voce collettiva, parte di un coro (un coro in cui tanti sono muti perché non possono parlare), e anche titolare di una lezione trasmissibile», «di una funzione». Con queste parole, affidate alla Lettera a Franco Fortini sulla sua poesia, Pier Vincenzo Mengaldo coglieva uno dei caratteri fondamentali non solo dell’opera ma della personalità culturale del suo destinatario. La Lettera, pubblicata per la prima volta nel 1980, si può ora rileggere nel volume che riunisce gli studi fortiniani di Pier Vincenzo Mengaldo: I chiusi inchiostri Scritti su Franco Fortini, Quodlibet, pp. 256, euro 19,00. I sedici contributi, di taglio ed estensione diversi, sono collocati nell’ordine cronologico di composizione, lungo un arco che va dagli anni Settanta (il primo era apparso nel 1974 come Introduzione alle Poesie scelte di Fortini uscite da Mondadori) al 2017 (Fortini traduttore del «Lycidas» di Milton, presentato al convegno per il centenario fortiniano tenutosi all’Università di Padova). Poesia e critica sono i due fuochi, ben distinti ma non del tutto separati; il critico è «perfettamente autonomo dal poeta, e la loro unità non va cercata in corrispondenze biunivoche, ma in una zona che sta più in alto», osserva Mengaldo in conclusione al saggio sull’antologia fortiniana dei Poeti del Novecento: e questo è «il miglior elogio che si può fare non solo della complessità intellettuale di Fortini, ma della sua probità di studioso». Il titolo I chiusi inchiostri, prelevato dal finale di Gli imperatori… (in Composita solvantur, l’ultima raccolta poetica di Fortini), si addice a un consuntivo, se non fosse per la pointe che smentisce ogni retorica celebrativa e allontana ogni tentazione conclusiva: «Noi bea, lieti di poco, un breve riso, / un’aperta veduta e i chiusi inchiostri / che gloria certa serbano ai poeti». Viene in mente proprio quello che Mengaldo scrive alla fine di uno dei saggi più importanti del libro, Un aspetto della metrica di Fortini: l’autore «sapeva bene – contro gli sciocchi che lo giudicano un puro ragionatore in versi – che in poesia pensiero poetico e gioco sono uno». Curatore del volume è Donatello Santarone, che nel ’17 aveva preso in carico la nuova edizione dei Poeti del Novecento, introdotta proprio da uno scritto di Mengaldo, ora riproposto in questa raccolta. Si deve a Santarone anche l’ampio saggio conclusivo (Le armoniche critiche di uno storico della lingua), che offre una prospettiva complessiva su Fortini, oltre che sugli studi novecenteschi e fortiniani di Mengaldo.

Come già accaduto nel 2013 per Vittorio Sereni, Mengaldo ha riunito le testimonianze di una costante, acutissima attenzione critica, accompagnata per molti anni anche dal sentimento dell’amicizia. Scrive giustamente Santarone nel suo saggio: «Sereni-Fortini-Mengaldo: ci troviamo di fronte ad un corto circuito poetico e critico di straordinaria profondità e umanità, fatto di scambi palesi e occulti, di richiami espliciti ed espliciti sia tra i due poeti (come è anche testimoniato dal ricco carteggio), sia del critico che durante mezzo secolo ha testimoniato, attraverso penetranti saggi e letture, la sua “lunga fedeltà” ai due poeti».

«Eravamo, io e Fortini, molto amici da tempo, di un’amicizia incrollabile e ricca di mutuo rispetto» ricorda Mengaldo nel primo capoverso del saggio su Fortini critico del Tasso; ciò «non gli impediva, secondo carattere, di impartirmi all’occasione lezioni, critiche dispettose e rabbuffi». Causa di uno di questi «rabbuffi» era stata proprio l’avversione «unilaterale e provocatoria» di Mengaldo nei confronti del Tasso, manifestata nel corso di una passeggiata sotto i colonnati del Bò, lo storico palazzo dell’Università di Padova: «gli dissi che “detestavo” (sic) il Tasso», confessa Mengaldo. Del resto, in un dialogo tra amici, tanto più se uniti da un sodalizio intellettuale, accade di esibirsi sul filo del paradosso, esagerando certe idiosincrasie. Nei capitoli del libro, il motivo dell’amicizia affiora più di una volta (a cominciare inevitabilmente dai Ricordi scritti ad hoc come prefazione al volume) e rende più accesi i colori del ritratto fortiniano. Tuttavia, se la memoria personale dà movimento e luce alla critica, non ne prende mai il posto; in questi saggi, cioè, l’analisi dell’opera critica e poetica non concedono mai spazio all’aneddotico, se non in minime porzioni e quasi solo esclusivamente sulle soglie del libro o di sue singole parti. Perciò la considerazione dell’uomo-Fortini non è mai scissa da quella dell’autore-Fortini, che in questa veste assume la titolarità di una lezione da trasmettere ed esercita una funzione, per riprendere i termini usati da Mengaldo nel passo da cui siamo partiti.

Quella «capacità di essere voce collettiva» è anche una vocazione a prendere la parola per pronunciare un discorso comune, non per forza condiviso e mai pacificante, ma nemmeno esclusivo. La sua autorevolezza e la sua perentorietà infatti non dipendono dall’affermazione di valori riconosciuti e riconoscibili da pochi, ma dalla coscienza e forse dalla pretesa di sostenere le istanze di tutti, accessibili non attraverso un privilegio conoscitivo ma per mezzo dell’impegno culturale. In questo senso, Fortini non solo assume una funzione ma è una funzione, attraverso cui collocare e interpretare molta parte del Novecento, non solo letterario. Per Fortini il compito del critico era mediare fra «l’opera e quel che l’opera non è», cioè – chiosa Mengaldo – «fra il senso della prima e quello che il critico crede sapere in generale della società, realtà, mondo». Si tratta di una «sociologia a freccia direzionale invertita», praticata «deducendo tendenze in atto nella società dal significato dell’opera e non viceversa, o meglio riportando l’uno e le altre al medesimo principio storico trascendente» (Insistenze critiche di Fortini). La miglior critica sull’autore sembra seguire questa medesima direzione, a cominciare proprio da I chiusi inchiostri, in cui dallo studio ravvicinato dell’opera fortiniana si dischiude e s’imposta una prospettiva aperta spesso sull’intero secolo poetico. Così, nel libro, agli studi su testi e questioni puntuali (la struttura di Questo muro, la metrica, la traduzione del Lycidas) si alternano grandi campate storiche, come nel saggio già ricordato su Fortini e «I poeti del Novecento». Agisce soprattutto qui la funzione-Fortini, che ne fa un ‘reagente’ critico, capace di innescare un processo di rivisitazione del Novecento e dei suoi emblemi. Si tratta, beninteso, di un processo dialettico, che non si risolve necessariamente nell’adesione. A proposito delle osservazioni sul futurismo, ad esempio, Mengaldo trova che il giudizio di Fortini, basato sul «contrasto fra modernismo programmatico della corrente ed effettive condizioni storiche di arretratezza dell’Italia» vada rovesciato: «l’arretratezza delle condizioni italiane era precisamente la premessa necessaria perché nascesse e prosperasse un’avanguardia coi connotati del futurismo, in quanto solo così l’idolatria del moderno poteva assumere la sua tensione di idea-forza e il suo sapore eversivo».

Solo in un punto le osservazioni di Mengaldo sembrano inattuali, ma in questo caso al critico non potrà che far piacere. «Silenzio o imbarazzo» scriveva in Dialettica e allegoria nella poesia di Fortini (1985) «sono da tempo le reazioni normali di fronte alla voce, di saggista e poeta, di Fortini». Né silenzio né imbarazzo, per fortuna, sembrano ormai ostacolare la quantità e la qualità delle ricerche su Fortini, cui si dedicano molti studiosi, spesso giovani, in questi anni