Un doppio stereotipo corrisponde nel senso comune all’immagine del latinista e uomo politico Concetto Marchesi (Catania 1878-Roma 1957). Il primo è legato a un suo celeberrimo contributo didattico, la Storia della letteratura latina che fra il 1926 e il 1953 ebbe otto edizioni, nel qual caso estese rielaborazioni, e una quantità di ristampe: immune dalla influenza crociana, perché era stato allievo di un pioniere della filologia umanistica, Remigio Sabbadini, e lontano altrettanto dal metodo lachmanniano (dunque da Wilamowitz, Friedrich Leo e Giorgio Pasquali, la cui scuola gli sarà generalmente ostile), Marchesi sembra piuttosto rifarsi per la Storia all’esempio magnanimo di Francesco De Sanctis e pertanto a un tracciato che calcoli la concomitanza o la distanza, insomma la dialettica, tra i fatti specifici della letteratura (con i classici portati in primo piano, come gli storici prediletti Sallustio, lo stesso Cesare e Tacito) e gli eventi della vita civile sempre richiamata per vividi scorci, con una attenzione costante, allora molto singolare in tempi di nazionalismo e di ambizioni imperialiste, alla letteratura cristiana che egli legge nei termini di una trasformazione e non necessariamente di una degenerazione. Marchesi innanzitutto è uno studioso preoccupato di porgere al lettore un testo e di inquadrarglielo secondo una nozione ampia e fervida di humanitas, anche perciò è un limpido traduttore e basterebbero ad esempio, tra le molte altre, le sue fortunate versioni da Marziale e da Esopo (entrambe per Formiggini, 1920 e ’30).
Il secondo luogo comune, diffuso ben oltre il recinto disciplinare, concerne la immagine pubblica di esponente comunista, di cui residuano almeno due istantanee: l’una si riferisce all’abilissimo discorso di inaugurazione dell’anno accademico dell’università di Padova, il 9 novembre del ’43, cui nella memoria collettiva spesso si sovrappone l’appello da parte di Marchesi alla resistenza e alla diserzione dei bandi di Salò, steso invece il successivo 1° dicembre, quando ormai è un rettore fuggiasco; l’altra immagine è terminale e lo fissa nel dicembre del ’56 alla tribuna dell’VIII Congresso del Pci mentre, a proposito del rapporto chruscioviano sui crimini di Stalin, si concede una clausola che lo immette a futura memoria tra gli stalinisti inveterati: «Tiberio, uno dei più grandi e infamati imperatori di Roma, trovò il suo implacabile accusatore in Cornelio Tacito, il massimo storico del principato. A Stalin, meno fortunato, è toccato Nikita Chruscev».
Dalla critica serrata a tali stereotipi muove un libro straordinario, di lettura appassionante malgrado sia onusto di documenti e di mole proibitiva, Il sovversivo Concetto Marchesi e il comunismo italiano (Laterza «Cultura storica», pp. 1.005, € 38,00), in cui Luciano Canfora riprende una materia già sua e contenuta nello studio La sentenza (prima edizione Sellerio 1985) che trattava del rapporto fra la vicenda di Marchesi nella Resistenza e l’esecuzione del filosofo fascista Giovanni Gentile. Anche oggi Canfora fornisce non una consueta monografia ma un vero e proprio quadro di storia degli intellettuali la cui struttura può infatti richiamare una costellazione di fatti il cui focus si sposti di continuo nello spazio e nel tempo. (Ogni lettore di Canfora vi riconosce l’insieme di cerchi concentrici ovvero la polifonia che è propria dell’altro suo capolavoro dedicato, e si direbbe gramscianamente, alla storia degli intellettuali italiani del ventesimo secolo, un’altra vicenda dove si intramano filologia e politica, il non meno avvincente Il papiro di Dongo, Adelphi 2005). Quella di Marchesi è una vita, scrive Canfora, che non ha bisogno di essere «eroicizzata» in quanto la attraversano le ambivalenze, le ambiguità, le laceranti contraddizioni che è compito di uno storico non riconciliare ma circostanziare. Testi alla mano, viene mostrato come il rapporto tra il latinista e l’uomo politico sia regolato da un principio di indeterminazione per cui la sua pagina scritta non soltanto riflette al presente, per via indiretta, la posizione di chi la sta scrivendo ma ne registra, nel tempo, le mutazioni. Canfora adduce una serie di esempi dalla stessa Storia della letteratura latina ma qui basti evocare, quasi si trattasse di un palinsesto, le varianti apportate nel tempo alla introduzione del Bellum Catilinae di Sallustio (data di uscita, per Marchesi baricentrica, è il 1939). In tralice, coglie nel grande storico romano la sua stessa parabola di uomo che per quasi vent’anni, durante il regime fascista, ha dissimulato una primitiva appartenenza alla factio miserorum duramente sconfitta: alle sue spalle non c’è stavolta un demagogo pauperista (l’ideale bersaglio per l’opportunismo dei Cicerone di ieri e di oggi) ma la lettura innanzitutto di alcuni testi decisivi (Mazzini, Proudhon, scritti anticlericali e della Massoneria – cui presto si affilia – il Manifesto dei comunisti curato da Labriola), quindi una militanza nel Partito socialista fino all’avventura libica, infine la adesione al Pci nel ’21 (da seguace di Bordiga) con una presenza visibile sulla stampa comunista fino al ’25, l’anno in cui si mostra irreversibile la sconfitta del movimento operaio e delle sue organizzazioni al cospetto della incipiente dittatura.
Dal 1925 al ’43, c’è da parte sua il silenzio politico assoluto e la biografia coincide senza residui con la bibliografia del latinista, massime con l’impresa della Storia, senza troppe concessioni al fascismo che non siano l’infamante giuramento del fedeltà al regime nel 1931 e il successivo arruolamento, sia pure in una posizione a latere, nella Accademia d’Italia: è il tempo per lui sconsolato in cui riflette, combinando la lezione di Sallustio e Tacito a Lenin, tanto sulla impotenza delle masse disarmate quanto sulla scelta necessaria di un leader: alludendo alla sconfitta dopo il Biennio Rosso, scrive che chi non dispone di entrambi, le armi e il condottiero, fallisce. Ne conclude Canfora: «Questa visione militare ed elitista del leninismo dà conto della intera sua lettura della storia romana, del fallimento dei Gracchi come della vittoria di Cesare, ma spiega anche la rimozione di Spartaco». Non è chiaro come Marchesi riprenda contatto con un Partito sempre ai ferri corti, perché ama agire di propria iniziativa ed è refrattario alle direttive del Centro: perciò viene di fatto sospeso subito dopo il discorso del 9 novembre ’43 a Padova e lo stesso Partito, cui converrà travisarlo in un appello diretto alla lotta armata, al momento gli imputa di essere rimasto al suo posto di rettore sotto Salò; perciò nei mesi dell’esilio svizzero, quando Marchesi lavora di conserva con l’Intelligence inglese, le sue azioni sono controllate e talora imbrigliate dai compagni del Centro, quando non strumentalizzate come nell’affaire Gentile; perciò, e prova ne sia alla Costituente la sua astensione sull’art. 7, egli non diventerà un dirigente del Partito ma rimarrà piuttosto un illustre compagno di via, un intellettuale di rango il cui nome spendere, magari, contro quello di Benedetto Croce.
Anche il suo profilo ideologico è anomalo perché segnato da un empito egualitario, di cristiano miscredente, di umanista temprato nella Resistenza, ma ignaro delle pagine di Gramsci e lontano dopo tutto, nonostante la stima reciproca, anche dalla riflessione di Palmiro Togliatti sulla «democrazia progressiva» e il «partito nuovo», come testimoniano gli scritti politici raccolti in Umanesimo e comunismo (a cura di Maria Todaro-Faranda, Editori Riuniti 1974): la sua visione del comunismo, scrive Canfora, «non enfatizza la distinzione fra ‘utopistico’ e scientifico» ma «evoca una ‘marcia’ durata ‘secoli’ (…) episodi remoti ben presenti alla sua esperienza e alla sua mitologia di studioso: dal moto catilinario (suo tema prediletto) alle eresie ‘comunistiche’ della lunga storia cristiana, senza trascurare alcune sue letture attualizzanti di favole esopiche». Concetto Marchesi, che mai mise piede in Unione Sovietica, in Stalin vedeva più che altro il condottiero della Armata Rossa e infatti Stalin liberatore si intitola il suo breve necrologio su l’Unità: troppo per non farne un uomo del suo tempo ma troppo poco per liquidarlo come stalinista onorario.