Come ogni anno in questo periodo, devo pensare a che attività finanziare per festeggiare l’8 marzo. Quest’anno però, a differenza dagli anni scorsi, non riesco a essere molto creativa perché la mia mente è piena delle immagini agghiaccianti che mi arrivano quotidianamente da Gaza, dove in base ai dati pubblicati da Ocha, l’ufficio per il coordinamentodegli affari umanitari delle Nazioni unite, le vittime delle operazioni militari israeliane ammontano a 30.228, a cui vanno aggiunte le 71.377 persone ferite e il milione e settecento mila di persone sfollate interne.

Dicevo che non riesco a essere creativa perché, oltre a leggere i dati ufficiali a disposizione di chiunque, ogni giorno ricevo messaggi WhatsApp di richieste di aiuto da parte di colleghi e amici di Gaza, donne e uomini, che dal 7 ottobre stanno vivendo in condizioni disumane. Da loro ricevo foto di macerie dove un tempo sorgevano edifici, scuole, negozi, alberghi, ospedali. Ma peggio delle immagini, sono i messaggi pieni di disperazione con richieste di aiuto per avere un visto per qualche paese europeo, dove portare in salvo la propria famiglia.

Quelle persone per me non sono numeri: sono persone con cui fino a poco tempo fa lavoravo, persone professionalmente qualificate che avevano una casa, un conto in banca, una famiglia; persone con cui sono andata tante volte a pranzo insieme, professioniste e professionisti che lavoravano con entusiasmo e impegno nei progetti finanziati dalla cooperazione internazionale.

Molte di quelle persone adesso non hanno più niente perché, seguendo le istruzioni ricevute dalle autorità israeliane, si sono spostate dal nord della Striscia verso sud, in cerca di posti sicuri. Sono persone che, ubbidienti agli ordini superiori, hanno lasciato le loro case e adesso vivono in rifugi sovraffollati senza acqua, luce, cibo, igiene…

E non posso fare a meno di pensare anche a quei bambini, maschi e femmine, rimasti orfani di entrambi i genitori, deceduti sotto le bombe israeliane. Minori che andranno a ingrossare le file delle persone che nel gergo della cooperazione definiamo «vulnerabili». Così come sono «vulnerabili» anche le donne rimaste vedove, spesso con prole a carico, che all’improvviso si ritrovano a essere capofamiglia, in una società fortemente patriarcale dove non è facile per una donna senza marito trovare un lavoro a condizioni accettabili, senza incorrere nel rischio di subire una qualche forma di violenza di genere.

In questo quadro desolato, in cui l’umanità è andata persa e in cui si fa fatica a intravedere un qualche barlume di speranza, penso che alla fine il minimo che possa fare in occasione dell’8 marzo, è raccontare la storia di alcune di queste donne.

Ecco, quindi, Amal (nome di fantasia) che dopo aver perso tutti suoi cari, per non impazzire dal dolore, si è messa a disposizione di organizzazioni della società civile che ancora operano a Gaza e distribuisce cibo e coperte alle persone sfollate. Poi c’è Miriam (nome di fantasia) che assiste le donne prossime al parto, cercando per loro un po’ di privacy e dei materassi su cui farle sdraiare. Jumana (nome di fantasia) che con la sua formazione di operatrice sociale, ha creato in mezzo alle macerie un’area giochi dove intrattenere bambine e bambini che in tempi normali sarebbero stati a scuola. E che dire di Sawsan (nome di fantasia) che ha accolto nella sua tenda di plastica, due donne anziane che non hanno più né una casa, né familiari che si possano occupare di loro.

Potrei andare avanti con infinite storie come queste, raccontando l’umanità e la resistenza delle donne di Gaza, donne che hanno perso tutto, ma che hanno ancora tutto da insegnarmi.
A tutte loro, a cui va il mio pensiero e la mia totale ammirazione, voglio dire che sento un’immensa frustrazione per non poter fare altro che raccontare la loro storia, nella speranza che chi può prendere certe decisioni, decida finalmente di porre fine a questo massacro.