Gli spostamenti di sapore picaresco che Roberto Bolaño ha intrapreso fra le diverse latitudini del continente americano e fra le due sponde dell’Atlantico – dal Cile al Messico e infine a Barcellona – riflettono quella precarietà e quel nomadismo esistenziali emblematici dell’epoca contemporanea. La condizione di crisi sia permanente che immanente, la dialettica tra ordine e caos sono, del resto, anche il fulcro della sua letteratura, nella quale si riverberano i tanti episodi biografici che hanno acquisito un’aura ormai leggendaria, dall’iniziazione letteraria tra le fila dei poeti infrarealisti messicani al lavoro in un campeggio della Costa Brava.

In Bolaño, infatti, la vita e la letteratura si alimentano reciprocamente, come provano la trama di rimandi e allusioni che travalicano la finzione e l’andirivieni da un libro all’altro di personaggi e ambientazioni, dove si duplicano la biografia e le opere dell’autore cileno, tracciando così i peculiari confini di quello che la critica ha chiamato il «territorio Bolaño».

Frattalità romanzesche
Uno tra i precoci esempi dell’uniformità di questo «territorio» è il noir La pista di ghiaccio, pubblicato la prima volta in Spagna nel 1993, già edito in Italia da Sellerio nella traduzione di Angelo Morino, che di Bolaño fu scopritore e amico, oggi riproposto da Adelphi nella traduzione di Ilide Carmignani (pp. 198, euro  17,00); opera minore, se confrontata con l’ambizioso romanzo totale 2666, ma in nuce già satura di tutti i temi e gli stilemi della letteratura dell’autore cileno, per la quale, a ragion veduta, si è mutuato dalla matematica il concetto di «frattalità»: ogni parte contiene le proprietà dell’insieme, qualunque punto di vista si adotti per osservarla.

In La pista di ghiaccio Bolaño mette in scena, attraverso il modello del romanzo poliziesco, una declinazione postmoderna della ricerca, che più o meno esplicitamente guida tutta la sua produzione, nella quale i personaggi si muovono sempre in cerca di qualcuno (uno scrittore, un assassino) il cui ritrovamento si rivela comunque, in ultima istanza, irrilevante. La pista di ghiaccio non si sottrae a questa formula: tre narratori (un politico locale innamorato di una seducente pattinatrice sul ghiaccio, un commerciante e scrittore venuto dal Messico che di quest’ultima è l’amante, e un messicano «poeta, indigente» che lavora come guardiano in un campeggio, sulle tracce di una misteriosa colombiana) raccontano, in ordinata alternanza, le vicende che li hanno portati a convergere sulla pista di ghiaccio, costruita di nascosto in un palazzetto di un imprecisato paese della costa catalana.

Quel che è perso è perso
Che si tratti di testimonianze riguardo un crimine, e che di questo crimine venga poi accusato uno dei narratori, è tutto sommato un elemento secondario (come del tutto secondari sono la vittima di tale crimine e il suo vero assassino, nell’economia dei personaggi). La ricerca viene così svuotata di senso, come pure il raccontare, che si trasforma in digressione prolungata e in fondo priva di finalità; pertanto, l’opera letteraria stessa, soggetta a questa spinta verso l’apertura illimitata, perde ogni valenza euristica e ogni capacità di redenzione: «quel che è perso è perso (…), bisogna guardare avanti», conclude il narratore ingiustamente incolpato di omicidio.

Autore globale, cosmopolita, extra-territoriale, il cileno Bolaño amava definirsi latinoamericano, come dimostra questo recupero della parodia del romanzo poliziesco, forma che, da Borges in poi, tanti autori ispanoamericani hanno adottato per narrativizzare la violenza della Storia che ancora oggi lacera ampie zone dell’America Latina. Nell’opera di Bolaño essa viene assunta a metafora della contemporaneità ed evocata, inevitabilmente, anche nell’anonimo luogo della Pista di ghiaccio tramite le esistenze derelitte dei latinoamericani che lì vivono, invisibili come fantasmi.