Carmelo Rifici non ha paura di scendere in profondità con i suoi spettacoli: profondità di un testo, degli attori che lo interpretano, e anche degli spettatori che vi assistono. Le sue regie assumono così (e non solo fisicamente) dimensioni grandiose, come succede ora al Lac di Lugano, struttura gigantesca e modernissima sulle rive del lago ticinese dedicata a teatro, musica e arti visive, che Rifici dirige. L’occasione è la messa in scena di Macbeth, le cose nascoste (in coproduzione col Metastasio di Prato, il TPE torinese e l’Ert emiliano, dove lo spettacolo arriverà). Sulla tragedia scozzese di Shakespeare, il regista ha infatti lavorato sulla scrittura con Angela Demattè, e con Simona Gonella in veste di quello che in area tedesca viene definito «dramaturg». Ma anche con uno psicanalista, Giuseppe Lombardi, che appare anche, e interloquisce con personaggi e interpreti, in proiezione sul grande schermo tripartito che fa da fondale, dietro un pavimento acquatico che è insieme amniotico e purificatore del sangue che nella tragedia notoriamente scorre.

TUTTA la prima parte (nella scansione tra prologo, epilogo e le tre stazioni che vi intercorrono) ha davvero le forme di una seduta analitica, introducendo il pubblico a rileggere la storia di Macbeth e della sua Lady a posteriori, alla ricerca dell’origine di tanti gesti estremi, oltre alla sete di potere e di sangue che tutti conosciamo. In realtà , come è presto evidente, gli attori parlano di sé, del proprio vissuto e della propria memoria, di esperienze lontane che il confronto col testo shakespeariano fa emergere, attingendo a ricordi infantili e a esperienze profonde, che per tutto lo spettacolo continueranno ad affiorare, in una sorta di cavalcata corale tra antropologia, letteratura ed emotività.

LA PARTITURA è molto ricca, fascinosa quanto complessa da distinguere, perché la temibile famiglia scozzese è impersonata da tre diverse coppie di attori, che si alternano e si scambiano, quando non prendono un altro ruolo tra i molti che Shakespeare ha affollato nello sviluppo della tragedia. E quelle terne di attori e attrici rinviano ovviamente anche alle streghe, con il loro carico di sapienze, premonizioni e alterità rispetto agli «umani» giochi di sesso potere e sangue.

IL FINALE si asciuga, letteralmente, nel corpo nudo del giovane figlio di Banquo, destinato a diventare re e purificatore della dinastia, che viene cosparso d’oro, in una spiazzante immagine di fantascientifico e insieme arcaico Goldfinger… Rifici ha potuto contare su un ensemble di attori concentrati e disponibili, tutti molto bravi e coinvolti nel disegnare quella vicenda che continuamente altera i suoi contorni come un oleogramma. Da ricordare tutti: Pilar Perez Aspa, Leda Kreider e Elena Rivoltini per il trio femminile, Tindaro Granata, Christian La Rosa e Angelo di Genio per quello maschile, e Alessandro Bandini. E poi una schiera assai folta di collaboratori, da Zeno Gabaglio per le musiche a Margherita Baldoni per i costumi a Paolo di Benedetto per le scene, tra i molti. Una messinscena quasi titanica per questo viaggio nella profondità imprendibile dell’inconscio. In cui è possibile perdersi, ma anche individuare percorsi e illuminazioni nel buio, che continuano a balenare uscendo nella fredda notte sul lungolago.