Insieme ai pronostici sui vincenti e perdenti alla cerimonia dei Golden Globes 2018, prevista domenica sera, gli handicappers stanno ipotizzando se il tappeto rosso si trasformerà veramente in «un mare di nero» (l’immagine è dall’ambasciatrice dei Globes di quest’anno, Simone Garcia Johnson -la figlia di The Rock), in adesione con il dress code «all black» suggerito da #metoo – niente colore per gli abiti delle signore e camicia nera sotto il tuxedo per gli uomini. A prescindere dalla varietà cromatica (e da quanto gli stilisti si saranno sbizzarriti per fare di quel limite virtù), l’aspettativa è che il dibattito sul sexual harassment iniziato dalla caduta agli inferi di Harvey Weinstein occuperà un posto molto importante nell’arco della serata.

Il comunicato della Hollywood Foreign Press, rilasciato ieri, annunciava per l’occasione anche una reunion speciale, tra i presenters, di Thelma/Geena Davis e Louise/Susan Sarandon (Ridley Scott, il regista del film, è uno degli aspiranti a premio). All’inizio della settimana, 300 esponenti femminili delle comunità dello spettacolo avevano fatto un passo importante (almeno sulla carta), dando vita a un’iniziativa e stabilendo un fondo legale, per far sì che «il nuovo corso» sulla molestia sessuale vada oltre lo splendido isolamento dell’elite hollywoodiana a coinvolgere donne di tutti gli strati sociali e in luoghi di lavoro diversi – dalle fabbriche, ai ristoranti, alle scuole, ai campi agricoli.

L’annuncio dell’iniziativa, che si chiama Time’s Up, era stato preceduto dalla nomina di Anita Hill alla direzione di una commissione per studiare e combattere il sexual harrassment nelle industrie del cinema e, più in generale, dei media. Ideata dalla presidentessa della Lucasfilm Kathleen Kennedy, la Commission on Sexual Harrassment and Advancing Equality in the Work Place, non è intesa esclusivamente a beneficio delle donne ma, in senso più lato, delle minoranze e «cercherà un set allargato di strategie per affrontare le cause complesse e interdipendenti dei rapporti di parità e di potere».

Da parte sua, Hill è stata piuttosto candida nell’ammettere che la mappa del nuovo corso è ancora tutta da disegnare. Certo, nell’eterno gioco di rimandi tra Hollywood e Washington che caratterizza il post Weinstein, la sua nomina ha un valore non solo simbolico importante – specialmente per coloro che si ricordano la sua testimonianza davanti al Senato (tutti uomini, tutti bianchi, tutti in imbarazzo) in occasione della (ahimè, avvenuta) conferma alla Corte Suprema di Clarence Thomas.

Purtroppo, non ogni sfaccettatura del post Weinstein è così positiva. In un articolo sul New York Times del 29 dicembre (considerato, da chi scrive, un minimo storico per uno dei giornali più importanti del mondo), scritto da un centro profughi della Grecia, Dove Barbanel descrive Charlie Chaplin come «un Weinstein della sua era, un uomo che condivideva molti dei tratti degli oppressori da cui le donne del campo erano scappate…Un donnaiolo accanito che aveva undici figli e quattro mogli molto più giovani di lui, due delle quali teenager che ha sposato per evitare scandali».

Forse persino peggiore del testo di Barbanel quello uscito giovedì nelle sezione «Prospettive» (per differenziarle dei reportage) del Washington Post, a firma di Richard Morgan, a suo dire la prima persona che ha letto dall’inizio alla fine i documenti depositati da Woody Allen all’Università di Princeton. Dalla lettura di script, racconti e stralci vari in gran parte inediti, Morgan evince un pezzo di straordinario livore in cui si affastellano citazioni fuori contesto per un effetto massimo dell’accumulazione in cui ben presto si perde la prospettiva che quella che si sta leggendo è satira, o fiction, piuttosto di un’ intervista con il regista. Nabokov, Philip Roth, Godard, Truffaut, la lista è infinita….Si salvi chi può.

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