«I hospitalized a rock. I beat up a brick. I’m so bad I make medicine sick», «Sono così cattivo che faccio ammalare pure le medicine…» recita Muhammad Ali in When We Were Kings lo strepitoso documentario di Leon Gast sul «Rumble in The Jungle» il suo epico incontro con George Foreman nel 1974. Le sue rime antesignane ricalcavano quelle dei poeti rap Last Poets e Watts Prophets e prefiguravano l’hip hop. La sua spacconeria elevata a performance amplificava l’antica tradizione del braggadocio afro americano dal palco globale della boxe al suo apice di sport globale e inventava al contempo l’identità moderna dei neri d’America.

Da quel palco Ali impiegò le parole e lo sport per ribaltare il teorema dell’oppressione. Campione olimpico ancora adolescente tornò nel suo Kentucky segregato e gettò la medaglia vinta a Roma nell’Ohio river dopo essere stato allontanato da un locale per soli bianchi. Da campione dei massimi ventiduenne profferì le parole che ne hanno fatto a ragione uno dei giganti politici del suo secolo: «Con che diritto mi chiedono di indossare un uniforme per fare 10.000 km e gettare bombe e proiettili su gente bruna in Vietnam, mentre i cosiddetti negri qui a Lousiville vengono trattati come cani ? (…) Il vero nemico della mia gente è qui. Io non ho nulla contro i Vietcong, nessun Vietcong mi ha mai chiamato sporco negro».

A chi gli faceva notare che la decisone gli sarebbe costata milioni di dollari e forse peggio rispose «In prigione? Che mi ci mettano pure. È 400 anni che siamo in prigione». Una sfida impensabile alla proposizione dell’atleta nero riverito fin quando rispetti le regole. Il rifiuto clamoroso di stare al gioco ebbe la forza di un intero movimento di rivolta, una effetto abbagliante sull’immaginario una nazione convulsa dall’ingiustizia. Politico «l’atleta più grande di tutti i tempi» per usare la sua stessa squisita iperbole, rimarrà tale per la forza delle sue parole oltre che delle sue gesta.

Con le quali seppe precedere anche Martin Luther King. Fu la sua opposizione alla guerra del Vietnam, pagata con tre dei suoi migliori anni in esilio dai ring, a convincere il leader dei diritti civili a schierarsi contro l’imperialismo americano, ad aggiungere alla lotta al razzismo una dimensione internazionalista. La ribellione del campione più loquace andava oltre la dialettica, diritto all’immaginario di un paese e di un pianeta. Non è un caso che sarebbe stato citato come ispirazione da Nelson Mandela. Ali conosceva istintivamente il linguaggio atavico della violenza e dei simboli e come ritorceli contro chi li impiegava contro la sua gente. Invitato da Roger Ebert a commentare Rocky 2 disse: «Un nero vincente è contro l’insegnamento americano. Per controbilanciare la mia grandezza hanno dovuto creare Rocky. L’America ha bisogno delle sue icone bianche: Gesù, Wonder Woman, Tarzan e Rocky».

Ali segnò la strada e quando John Carlos e Tommie Smith alzarono il loro pugni a Città del Messico lo fecero anche il solidarietà col campione esiliato, il «guerriero/santo della rivolta degli atleti neri». Le sue parole all’epoca impensabili sono state citate come ispirazione ieri dal primo presidente afro americano: «Io sono l’America. La parte che non riconoscerete ma sarà meglio che vi ci abituate. Sono nero e sicuro di me. Prendo il mio nome non il vostro, la mia religione non la vostra. I miei traguardi: i miei. Abituatevi».

Una militanza viscerale sempre venata di umorismo. Come le rime cadenzate, gli sfottò degli avversari, scanditi per le cineprese , le sue parole ai microfoni di un America incredula erano un linguaggio che confutava clamorosamente la narrazione ufficiale. Un cortocircuito dialettico senza precedenti di immaginazione e di linguaggio e quindi è vero come oggi scrivono molti che Ali è l’antecedente imprescindibile di Obama – il presidente che nello studio ovale tiene un paio di suoi guantoni e quella foto iconica della vittoria su Sonny Liston.

Come Malcolm X anche il suo percorso è passato dalla conversione all’islam, quello della Nation of Islam di Elijah Muhammad – tappa obbligata della ricerca di un immagine antagonista, la necessaria ricostruzione di un identità sistematicamente annientata. Una associazione problematica che per Malcolm, poi fuoriuscito, risultò fatale. Ali non la avrebbe invece mai rinnegata; man mano che la sua voce insostituibile si andava affievolendo nella malattia, la sua presenza politica si è stemperata in una spiritualità privata. «Era un uomo pieno di persuasioni politiche e religiose» ha detto ieri Bill Clinton, il presidente che gli conferito la medaglia presidenziale. Eufemismi ufficiali che mascherano la forza sovversiva che hanno tuttora e sempre avranno le gesta del campione più coraggioso. Come ha concluso ieri Obama: Ali non è mai retrocesso. La sua vittoria ci ha aiutati ad abituarci all’America che conosciamo oggi. Muhammad Ali ha scosso il mondo. E per questo oggi è un mondo migliore.