Un recente studio pubblicato sulla rivista scientifica The Astrophysical Journal Letters riporta l’osservazione dell’oggetto spaziale più lontano mai avvenuta finora. Si tratta di una galassia denominata GHZ2 ed è stata osservata grazie al James Webb Space Telescope (Jwst), il telescopio spaziale operativo da pochi mesi per osservare l’universo profondo.

A compiere la scoperta è stato un gruppo di ricerca italiano guidato da Adriano Fontana dell’Istituto nazionale di astrofisica, che sabato 26 novembre parteciperà al Festival delle scienze di Roma (in apertura domani all’Auditorium).

Osservare una galassia lontana miliardi di anni luce significa tornare indietro nel tempo: secondo gli scienziati l’immagine della galassia risale a quando erano trascorsi «soli» trecentocinquanta milioni di anni dal Big Bang, avvenuto quasi quattordici miliardi di anni fa. Gli astronomi ne hanno osservata anche un’altra appena più recente, quattrocentocinquanta milioni di anni dopo il Big Bang.

Sono immagini dell’universo giovanissimo, quando stelle e galassie avevano appena iniziato a formarsi dopo il raffreddamento della nube primordiale di energia e particelle. «La luce che arriva da quegli oggetti ha viaggiato per molti miliardi di anni – spiega Fontana –. Quella che abbiamo osservato è stata inviata oltre tredici miliardi di anni fa, quando l’universo era molto più giovane. È come ricevere una lettera da un paese molto lontano: arriva quando nel frattempo le cose sono cambiate. Oggi anche quegli oggetti sono cambiati, se esistono ancora. Quindi, più lontano guardiamo e più andiamo indietro nel tempo».

Nessuno aveva osservato l’universo così vicino al Big Bang…

Trecentocinquanta milioni di anni dopo il Big Bang rappresentano un tempo molto breve sulla scala dell’universo, quando le galassie avevano appena iniziato a formarsi. C’era una probabilità su dieci di trovare qualcosa nella regione dello spazio che abbiamo osservato.

Confesso che, prima di vedere i dati, avevamo già impostato una bozza della pubblicazione scientifica in cui spiegare perché non avremmo avvistato nulla. Invece abbiamo osservato ben due galassie ed è questa la scoperta importante. Suggerisce che all’epoca ci fossero più stelle e galassie di quanto ci aspettassimo. Come se qualcosa avesse aiutato la formazione delle stelle nell’universo primordiale. Ma non sappiamo ancora cosa.

Ci sono ipotesi?

Quelle più accreditate sono due. Le stelle all’epoca erano differenti da quelle che conosciamo oggi, come il Sole. C’erano meno elementi chimici perché mancavano le supernove che hanno generato quelli più pesanti. P

otrebbe darsi però che fossero ancora più diverse di quanto crediamo e che, per esempio, non contenessero metalli. In tal caso, risulterebbero più luminose e questo potrebbe averne facilitato l’osservazione. Poi c’è l’ipotesi che richiederebbe una «nuova fisica».

Leggi fisiche ancora sconosciute?

È possibile che nell’universo più giovane fossero presenti buchi neri primordiali, che avrebbero fornito la forza di gravità necessaria ad accelerare la formazione di strutture complesse come le galassie. Ma l’esistenza di buchi neri primordiali presuppone meccanismi fisici che non sono previsti dal cosiddetto «modello standard», la teoria oggi più accettata sulla fisica delle particelle elementari.

Osservare l’universo nelle fasi iniziali permette di vedere all’opera fenomeni che, nell’evoluzione successiva in cui ne entrano in azione altri a complicare il quadro, sono difficili da osservare.

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Il vostro «record» si deve anche a una recente «ricalibrazione» del telescopio che ha portato a rivedere i risultati preliminari. Cosa significa?

Una volta in orbita, un telescopio spaziale va calibrato con misure su stelle già note in modo da verificarne la sensibilità. I primi dati del Jwst sono arrivati prima che fosse effettuata questa operazione.

Si basavano sulle calibrazioni fatte in laboratorio e avevano errori del 20-30%. Molte di queste osservazioni sono state smentite dopo la calibrazione: alcune galassie sono scomparse e altre ne sono emerse. Quelle che abbiamo osservato noi però sono sopravvissute a questa revisione.

Il telescopio sta dando i risultati in cui si sperava al suo lancio?

La qualità dei dati è straordinaria. Nel campo della ricerca delle galassie i risultati sono arrivati in fretta perché le informazioni raccolte dal Jwst vengono rese pubbliche immediatamente. Diversi ricercatori le possono utilizzare in competizione tra loro e questo accelera le analisi. Ma ha anche il vantaggio di fornire una verifica delle scoperte: un altro gruppo di ricerca ha potuto confermare le nostre conclusioni in modo indipendente.

Altri dati del telescopio sono proprietà dei singoli ricercatori per un anno e questo offre il tempo necessario per lavorare con più calma. Quindi, altre scoperte arriveranno.

Quali sono i vostri obiettivi ora?

Studiare lo spettro della luce che arriva da galassie come queste per scoprirne la composizione, la temperatura, il movimento. Cioè i «colori» (cioè le frequenze, perché il James Webb Space Telescope osserva luce infrarossa che all’occhio umano non risulta colorata, ndr) che compongono la luce emessa.  È questo il campo in cui il telescopio è più innovativo, con una sensibilità mille volte superiore agli strumenti precedenti.

Il destino della Stazione spaziale internazionale, una collaborazione Usa-Ue-Russia, oggi deve fare i conti con la guerra in Ucraina. C’è il rischio che la geopolitica si metta di traverso nel futuro della ricerca?

Il grosso delle nostre missioni coinvolge solo Ue e Usa e dunque ci sono meno problemi. Ma non sono del tutto assenti: lo sviluppo della sonda eRosita, un telescopio spaziale progettato da una collaborazione tra Russia e Germania, attualmente è bloccato.

Il dibattito nella comunità scientifica rimane. La nostra idea è che la scienza non dovrebbe essere sottoposta alle limitazioni dettate dalla politica, la distinzione tra responsabilità politica e individuale va ribadita.

Torno da una conferenza al Cern di Ginevra dove la situazione è drammatica, perché nel campo della fisica delle particelle la collaborazione con gli scienziati russi era molto più intensa. Poi c’è anche la Cina: ci sono diversi progetti di collaborazione e bisognerà vedere se la situazione geopolitica li favorirà o meno.

Imprenditori privati come Jeff Bezos o Elon Musk stano entrando nel campo dell’esplorazione spaziale. Succede anche nel mondo dei telescopi?

Poco o nulla. I privati entrano nella ricerca spaziale laddove c’è un guadagno: oggi mettere in orbita satelliti o vendere lanci è diventata un’attività redditizia. Da missioni scientifiche come la nostra invece non c’è nulla da guadagnare.

Però qualcosa ricade anche nel nostro campo. L’anno prossimo, ad esempio, l’Agenzia spaziale europea lancerà il satellite Euclid. Inizialmente avrebbe dovuto usare il lanciatore russo Soyuz, ma oggi non è più possibile. Si sarebbe potuto utilizzare il vettore francese Ariane, che costa molto di più e avrebbe potuto comportare ritardi. Alla fine, per risparmiare fondi e tempo, si è scelto di usare il razzo Falcon 9 lanciato dalla SpaceX di Musk.

SCHEDA. Il Festival delle scienze all’Auditorium di Roma

Inizia domani, lunedì 21 novembre, all’Auditorium di Roma il Festival delle scienze, in programma fino a domenica 27 novembre. Il tema dell’edizione di quest’anno è «Esplorare» e prevede oltre 400 eventi a cui parteciperanno scienziati, intellettuali e giornalisti scientifici.

Tra gli ospiti, ci dsaranno il fisico e divulgatore Jim Al-Khalili, la neuroscienziata Agnieszka Wykowska, la scrittrice di fantascienza Tlotlo Tsamaase e il matematico Paolo Zellini, che interverranno sabato 26 e domenica 27.

Non ci sarà spazio solo per le scienze «dure»: tanti gli incontri tra discipline in programma al festival. Martedì 22 novembre, ad esempio, il genetista Guido Barbujani e la scrittrice Igiaba Scego discuteranno da punti di vista di versi intorno al concetto di razza, superato dal punto di vista scientifico ma ancora radicato nell’immaginario.

Mercoledì 23 novembre, la neuroscienziata Monica Gori dialogherà con la psicologa Daniela Lucangeli sulle potenzialità del cervello nella fase di sviluppo e di apprendimento. Domenica il neurobiologo britannico Semir Zeki racconterà «le basi neurali della bellezza».

La stessa sera la chiusura del festival è affidata a due star della divulgazione scientifica via web (e non solo), come Barbascura X e Luca Perri.