L’uscita del M5S dalla maggioranza resta un’ipotesi improbabile, perché richiederebbe nervi saldi e una forte dose di coraggio politico, doti che scarseggiano nel movimento terremotato dalla scissione di Di Maio. Colpisce invece l’ultimatum del Pd, «Se uscite addio all’alleanza», pronunciato domenica da Dario Franceschini, uno dei più ferventi sostenitori dell’asse giallorosso. Quello che poche settimane fa aveva ribadito: «L’alleanza non è una condanna o un obbligo di questa legge elettorale con i collegi uninominali. Si tratta di una scelta strategica».

Lasciamo da parte l’aspetto tattico delle parole di Franceschini, cioè il pressing per indurre Conte a restarsene buono. Ci sta, è la politica. Ma nel merito, il ragionamento, che è condiviso da Letta, fa acqua da tutte le parti. E’ evidente che un M5S prigioniero del governo Draghi e mutilato dalla scissione, costretto a trangugiare altri invii di armi in Ucraina, tagli al reddito di cittadinanza, parole vuote sul salario minimo, è destinato a liquefarsi. O al massimo a trasformarsi in una corrente esterna del Pd.

Se Conte uscisse da questa assurda maggioranza (nessuno crede davvero che Draghi si dimetterebbe), avrebbe invece alcuni mesi di tempo per ricollocare il movimento a contatto con il crescente disagio sociale, per elaborare un’agenda diversa da quella di Draghi, a partire dai temi della povertà, del lavoro, dell’ambiente.
Certo, al Pd resterebbe la scomoda posizione di essere l’unico componente dell’alleanza progressista a sostegno di Draghi.

Ma questo fa parte della natura stessa del Pd, sempre fedele ai governi tecnici e tecnocratici, fino al punto da pagare (nel 2013) un prezzo altissimo con Monti. E poi, Fratoianni e i Verdi, con cui i dem sono già alleati, non sono all’opposizione di Draghi? Certo, lo sono con un piccolo numero di parlamentari, ma la sostanza non cambia: nessuno si è mai sognato di dire che vanno espulsi dal campo largo.

Se Letta spera di vincere le prossime elezioni, dovrebbe favorire lo sviluppo di una forza (con cui allearsi) più a sinistra sui temi sociali, pacifista fino a dire no alle armi in Ucraina (in sintonia con milioni di italiani), capace di parlare con i tanti esclusi e arrabbiati che il Pd non lo voteranno mai. Se poi Conte sarà capace di fare questo utile e necessario lavoro politico è tutto da vedere.

Ma in questa fase non si vedono in giro altri in grado di farlo. Se fallirà, la responsabilità sarà tutta sua, dell’ex avvocato del popolo. Il M5S oggi ha bisogno come l’aria di uscire dal palazzo, di recuperare quella funzione di spugna della rabbia sociale che ha avuto nel 2013 e nel 2018. Altrimenti quel lavoro lo farà solo Giorgia Meloni.

Nel mezzo c’è Articolo 1, il partito di Bersani e Speranza. Se Conte strappasse, loro dovrebbero sciogliere le infinite ambiguità di questi anni: si torna a casa nel Pd, o si lavora con l’avvocato a un progetto più radicale, magari ispirato (almeno nei contenuti) alla sinistra francese?