Il Fiscal Compact a quanto pare non piace più a nessuno. Eppure solo qualche anno fa lo avevavo votato (quasi) tutti.

Com’è successo? E di cosa si parla esattamente?

Le ultime uscite di Matteo Renzi si sono concentrate sulla questione migranti e Ue con una manovra da vero funambolo, ridestando un minimo di attenzione sui vincoli di bilancio determinati dalla appartenenza dell’Italia all’unione.

Riepiloghiamo la situazione: il Fiscal Compact (il cui nome ufficiale è «Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria») è figlio della fase della crisi del debito sovrano degli anni 2010-12 in cui si temeva che alcuni stati dell’Ue non riuscissero a far fronte ai loro impegni, in specie la Grecia; per cui venne accettata la teoria secondo la quale occorreva mettere limitazioni e vincoli ai bilanci per garantire che i soldi per i «poveri» creditori alla fine saltassero fuori.

Si ventilò persino la eventualità di una bancarotta dell’Italia (con un grando di allarmismo e di falsità veramente notevoli). E quindi arrivarono le grandi coalizioni per fare «fronte comune». Arrivava Monti, sostenuto da tutti i partiti presenti in Parlamento (salvo la Lega) e stava nascendo la Troika (è stata l’unica legislatura con una sinistra comunista o socialista fuori dal parlamento, ndr).

Il Fiscal Compact rappresenta il vertice di tutto questo sistema di occhiuto controllo dei bilanci degli Stati membri. In esso si affermano obblighi in larga parte già operativi nelle norme comunitarie (in specie il Six Pack, sei regolamenti del 16 novembre 2011) a cui aggiunge l’obbligo del pareggio di bilancio da garantire con legge preferibilmente di rango costituzionale.

La austerità e tutto il sistema legale che la fonda viene in qualche modo incorporata in tal modo nella Legge suprema, incidendo sulla possibilità dello Stato di dare una direzione politica all’economia e di garantire quei diritti che continuano ad essere prescritti nella prima parte della Costituzione italiana…

Non tutti erano così d’accordo nel trasformare il Parlamento, in materia finanziaria, in una dépendance di Bruxelles dominata da ragionieri ossequiosi; per cui vista l’insuperabile opposizione della Gran Bretagna (sempre molto ostili i britannici a ogni forma di egemonia continentale!) e Repubblica Ceca ,il Fiscal Compact è stato proposto come un trattato esterno all’Unione europea, cui hanno aderito 25 paesi su 27.

Il Fiscal Compact, giustamente associato alla voga delle politiche di austerità è divenuto inviso a quasi tutti: il M5S lo ha incluso già da anni nei suoi bersagli polemici, la Lega votò contro, le sinistre lo osteggiano.

E adesso anche Renzi prendo decisamente posizione. La legge 114 del 23 luglio 2012 fu votata da Pd, Forza Italia e centristi, mentre si opposero solo i leghisti e qualche cane sciolto (Elio Iannutti per esempio mentre il resto di IdV si astenne).

5 anni più tardi si litiga su chi lo sostenga tutt’oggi: se sul loro sito i pentastellati fanno malignamente notare che la risoluzione del 16 febbraio 2017 all’europarlamento firmata da Mercedes Bresso (Pd ex presidente della Regione Piemonte nonché molto amica del Tav) comporta al punto 7 «l’integrazione delle disposizioni pertinenti [nei trattati comunitari] del patto di bilancio (Fiscal Compact)», questa scrive sull’Huffington Post un articolo intitolato «Ma quale sostegno al Fiscal Compact! Solo polemiche pretestuose».

Chissà che ne pensa Renzi.

Se nel testo del Trattato si chiedeva di sancire il pareggio di bilancio con norme preferibilmente costituzionali, a metterlo davvero in Costituzione lo hanno fatto solo due paesi. Uno in realtà lo aveva già: la Germania ha fatto una riforma in tal senso nel 2009.

L’altra è l’Italia, e si potrebbero considerare questi due dati. Ma questa è un’altra storia.