Giusto celebrare Wolfgang Rihm, morto il 27 scorso a 72 anni, come un compositore senza modelli e senza dogmi. Si ascoltò in una lontana edizione della Biennale Musica, quando questa rassegna era poco più che precaria, primi ’90 del secolo scorso, un suo Concerto per pianoforte e orchestra con tratti romantici così appassionatamente marcati da destare sorpresa. Ma era già evidente in quella occasione che la spregiudicatezza nel non ubbidire alle convenzioni neoavanguardistiche ancora circolanti non significava affatto l’adesione a esperimenti di struttura delle partiture che evitassero la grande tradizione classica, mai del tutto abbandonata, del resto, nemmeno dai serialisti e strutturalisti più intransigenti.

PER QUEL GENERE di atti di ribellione occorreva attingere ad altri esempi, ad altri sovversivi, tipo John Cage, tipo Morton Feldman, tipo l’ultimo Luigi Nono, tipo i minimalisti, tipo i nomi che verranno a espandere la microtonalità del Ligeti più estremo – un Georg Friedrich Haas per esempio – e prepareranno partiture di continue trasmutazioni senza le logiche «narrative» ancora presenti nella musica che si autoproclama «d’arte» (come se quella di Bob Dylan o di Lou Reed non lo fosse).

Rihm sempre pronto a stupire passando da certe raccolte di lieder come Lieder nach Gedichten von Heiner Müller (1999), appunto su testi del grande drammaturgo tedesco orientale, splendide e logiche, classiche fino a un certo punto dati certi spunti irriverenti, ad avventurose operazioni musical-teatrali come Séraphin, azione scenica presentata la prima volta nel 1994 col titolo Musiktheater ohne Text e ascoltata in nuova versione alla Biennale Musica del 2005 (e ormai, finalmente, la rassegna lagunare era ridiventata una cosa seria, stabile, prestigiosa com’era alle origini). La parte teatrale di Séraphin era di inventività leggerezza irrispettosità deliziose, compresi certi innovativi giochi circensi, la parte musicale, eseguita alle spalle del pubblico, era di qualità eccelsa nella scrittura, densa di traumatizzanti salti di atmosfera, ma nel contempo recuperava con severità un po’ grigia aspetti dell’eredità weberniana che era quella dei neoavanguardisti di Darmstadt da cui Rihm sembrava aver preso le distanze per sempre.

Poi capitò di ascoltare la sua Vigilia (2006), curiosa immersione nel sacro. Sette Mottetti, sette Sonate e un Miserere per piccolo coro e ensemble o alternati o assieme nel finale. Ascetica fascinosa rievocazione dell’antico patrimonio chiesastico, ma tutto con una tale intensità e novità dell’invenzione timbrica e della costruzione da lasciar commossi all’ultimo stadio. Ha lasciato un numero impressionante di quartetti d’archi, 15. Ha lasciato Concerti per violino, viola, violoncello, oboe, fagotto, clarinetto, tromba, trombone, arpa, organo, pianoforte. Scriveva tantissimo. Un musicista singolare, Paolo Castaldi, diceva di lui: «È uno che si alza al mattino e ancora in pigiama ti butta giù una sinfonia in un batter d’occhio».